Ho un’ (ex) amica che sebbene non sia ancora madre – le mancano due mesi al parto – pensa di sapere già tutto sulla maternità. Il suo consiglio è stato quello di non continuare a parlare di depressione post partum, ma – parole testuali – “di sostarmi su altre attività”. Tipo? La maglia? Il taglio e cucito? La corsa con i sacchi?
Sono convinta che – ancor di più dopo il suicidio di Robin Williams lo scorso 11 agosto – di depressione non si parli abbastanza, o meglio: non nel modo giusto. Si usa l’aggettivo “depresso” un po’ come il sale: lo si mette dappertutto senza un perché. Spesso la depressione viene associata alla tristezza, a qualche giornata storta, ad un disturbo dell’umore.
E invece no. La depressione è una malattia. Ed è ancora più subdola perché non si vede niente. Ce lo aveva raccontato anche Elisa nel suo racconto di mamma:“nessuno da fuori si era accorto che qualcosa non andava“. Se venisse trattata come tale e – soprattutto – si prendessero sul serio i sintomi – quanto dolore si risparmierebbe!
Nella sua vigliaccheria, la depressione è molto democratica: colpisce tutti, anche chi aveva tutto come l’attore de L’Attimo Fuggente. Non centrano i soldi, la fama, il successo: se ti colpisce, hai voglia di farla finita anche se dormi su un materasso foderato di dollari. Su facebook ho letto qualche commento e qualcuno ha definito l’attore “un egoista”. Credetemi: non c’è nulla di egoista. Si ha invece avuto la sfortuna di essere “caduti nella malattia” per dirla alla francese. Si viene inghiottiti da questo enorme, frastagliato buco nero e per diverso tempo non t’importa più niente di nessuno. L’unica cosa che desideri è di far smettere quel mal di testa, che poi non è un mal di testa vero, ma un dolore acuto, senza voce, che ti attanaglia il cervello e ti fa spegnere giorno dopo giorno se non trovi un appiglio.
Ecco perché continuo a parlare di depressione post partum: perché tante mamme quel buco nero possano saltarlo a piè pari.
Depressione post partum: perché bisogna parlarne anche dopo la guarigione
Ho un’ (ex) amica che sebbene non sia ancora madre – le mancano due mesi al parto – pensa di sapere già tutto sulla maternità. Il suo consiglio è stato quello di non continuare a parlare di depressione post partum, ma – parole testuali – “di sostarmi su altre attività”. Tipo? La maglia? Il taglio e cucito? La corsa con i sacchi?
Sono convinta che – ancor di più dopo il suicidio di Robin Williams lo scorso 11 agosto – di depressione non si parli abbastanza, o meglio: non nel modo giusto. Si usa l’aggettivo “depresso” un po’ come il sale: lo si mette dappertutto senza un perché. Spesso la depressione viene associata alla tristezza, a qualche giornata storta, ad un disturbo dell’umore.
E invece no. La depressione è una malattia. Ed è ancora più subdola perché non si vede niente. Ce lo aveva raccontato anche Elisa nel suo racconto di mamma: “nessuno da fuori si era accorto che qualcosa non andava“. Se venisse trattata come tale e – soprattutto – si prendessero sul serio i sintomi – quanto dolore si risparmierebbe!
Nella sua vigliaccheria, la depressione è molto democratica: colpisce tutti, anche chi aveva tutto come l’attore de L’Attimo Fuggente. Non centrano i soldi, la fama, il successo: se ti colpisce, hai voglia di farla finita anche se dormi su un materasso foderato di dollari. Su facebook ho letto qualche commento e qualcuno ha definito l’attore “un egoista”. Credetemi: non c’è nulla di egoista. Si ha invece avuto la sfortuna di essere “caduti nella malattia” per dirla alla francese. Si viene inghiottiti da questo enorme, frastagliato buco nero e per diverso tempo non t’importa più niente di nessuno. L’unica cosa che desideri è di far smettere quel mal di testa, che poi non è un mal di testa vero, ma un dolore acuto, senza voce, che ti attanaglia il cervello e ti fa spegnere giorno dopo giorno se non trovi un appiglio.
Ecco perché continuo a parlare di depressione post partum: perché tante mamme quel buco nero possano saltarlo a piè pari.
Valentina Colmi
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