Sto continuando ad andare in terapia perché penso che mi faccia bene avere un supporto durante questa seconda gravidanza e devo dire che finora il lavoro è stato difficile, ma sta portando dei risultati. Ormai mancano due mesi e mezzo alla nascita della nuova bambina e andrò incontro ad un taglio cesareo programmato (lo so che potrei tentare un Vbac ma l’esperienza terribile del parto di Paola non mi fa vivere serenamente la possibilità di un parto naturale).
Eppure anche la mia terapeuta è rimasta perplessa quando le ho comunicato la decisione di non allattare. O meglio: vorrei dare a mia figlia il mio latte – ammesso che si attacchi – i primi giorni in modo che prenda il colostro e che riceva un po’ dei miei anticorpi, ma poi vorrei passare al latte artificiale.
Sono giunta a questa consapevolezza dopo tutto ciò che ho provato con Paola: ora, a distanza di due anni, penso di aver fatto la scelta giusta. Però la psicologa mi ha fatto riflettere su un aspetto su cui non avevo mai posto l’accento: sono troppo egoista? Facendomi parlare di come sto vivendo la gravidanza, secondo lei emerge che sono troppo concentrata su di me. Su come la sto vivendo io. “Non sei disposta a fare un passo indietro per capire cosa è meglio per la bambina”.
Credo che la terapia sia fatta di momenti duri e sicuramente questo lo è. Io non credo di essere una mamma egocentrica. So quali siano i benefici dell’allattamento, ma semplicemente ritengo di non essere adatta ad allattare. Perché già ora che la bimba non è nata la sto vivendo male, come una costrizione. “Devi farlo”. Io credo che mi sia venuta la depressione post partum anche perché nessuno sentiva le mie difficoltà e il mio senso di disagio.
So che esistono diversi studi che testimoniano che invece allattare al seno prevenga la dpp, ma io non lo vivo come un momento di benessere, né come un momento di legame. Perché nessuno tiene in considerazione anche di come mi sento io? È meglio avere una mamma sempre nervosa ma che dà il suo latte piuttosto che una serena con il biberon? La risposta mi sembra scontata. Come diceva Clelia, una psicologa, la donna dovrebbe poter vivere il parto e il post in maniera attiva, venendo ascoltata, non costretta a fare qualcosa che non vuole solo perché “è meglio così”.
Riprendendo le parole della scrittrice Simona Vinci, io non ho la pretesa di essere una mamma perfetta, ma di essere la mamma di Paola e Vittoria con i miei limiti e le miei piccole certezze. Le madri sono tutte diverse, perché non ci può essere una maternità “Taylor Made”, su misura?
Io per colpa della dpp ho perso i primi 5 mesi di vita di Paola, non basta questo?
Perché è così difficile dire che non si vuole allattare?
Sto continuando ad andare in terapia perché penso che mi faccia bene avere un supporto durante questa seconda gravidanza e devo dire che finora il lavoro è stato difficile, ma sta portando dei risultati. Ormai mancano due mesi e mezzo alla nascita della nuova bambina e andrò incontro ad un taglio cesareo programmato (lo so che potrei tentare un Vbac ma l’esperienza terribile del parto di Paola non mi fa vivere serenamente la possibilità di un parto naturale).
Eppure anche la mia terapeuta è rimasta perplessa quando le ho comunicato la decisione di non allattare. O meglio: vorrei dare a mia figlia il mio latte – ammesso che si attacchi – i primi giorni in modo che prenda il colostro e che riceva un po’ dei miei anticorpi, ma poi vorrei passare al latte artificiale.
Sono giunta a questa consapevolezza dopo tutto ciò che ho provato con Paola: ora, a distanza di due anni, penso di aver fatto la scelta giusta. Però la psicologa mi ha fatto riflettere su un aspetto su cui non avevo mai posto l’accento: sono troppo egoista? Facendomi parlare di come sto vivendo la gravidanza, secondo lei emerge che sono troppo concentrata su di me. Su come la sto vivendo io. “Non sei disposta a fare un passo indietro per capire cosa è meglio per la bambina”.
Credo che la terapia sia fatta di momenti duri e sicuramente questo lo è. Io non credo di essere una mamma egocentrica. So quali siano i benefici dell’allattamento, ma semplicemente ritengo di non essere adatta ad allattare. Perché già ora che la bimba non è nata la sto vivendo male, come una costrizione. “Devi farlo”. Io credo che mi sia venuta la depressione post partum anche perché nessuno sentiva le mie difficoltà e il mio senso di disagio.
So che esistono diversi studi che testimoniano che invece allattare al seno prevenga la dpp, ma io non lo vivo come un momento di benessere, né come un momento di legame. Perché nessuno tiene in considerazione anche di come mi sento io? È meglio avere una mamma sempre nervosa ma che dà il suo latte piuttosto che una serena con il biberon? La risposta mi sembra scontata. Come diceva Clelia, una psicologa, la donna dovrebbe poter vivere il parto e il post in maniera attiva, venendo ascoltata, non costretta a fare qualcosa che non vuole solo perché “è meglio così”.
Riprendendo le parole della scrittrice Simona Vinci, io non ho la pretesa di essere una mamma perfetta, ma di essere la mamma di Paola e Vittoria con i miei limiti e le miei piccole certezze. Le madri sono tutte diverse, perché non ci può essere una maternità “Taylor Made”, su misura?
Io per colpa della dpp ho perso i primi 5 mesi di vita di Paola, non basta questo?
Valentina Colmi
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