Come sapete giovedì scorso sono stata ospite ad Alba, in provincia di Cuneo, per presentare una serata legata alla maternità e alla depressione post partum. E’ stata un’esperienza bellissima, che mi ha portato molti spunti di riflessione che vedrete sul sito attraverso le interviste delle professioniste che sono intervenute. Ho conosciuto di persona Marilde Trinchero, che con il suo libro “La solitudini delle madri” mi ha cambiato la vita. Mi ha regalato il suo lavoro successivo, “Reclusioni di corpi e di menti”, in cui si parla delle prigioni che le donne – volontariamente o meno – si scelgono. Anche qui c’è un capitolo sulla maternità, cosa che mi ha permesso di considerare l’argomento da un ulteriore punto di vista: il luogo in cui si vive determina l’insorgenza della depressione?
Pensavo di no, ritenendo che la malattia potesse insorgere dentro una madre indipendentemente dal contesto, invece anche dove si vive è un elemento fondamentale forse trascurato. La donna intervistata da Marilde ha spiegato che il vivere in un paesino in cui tutti la conoscono e in cui il massimo livello di conversazione riguarda le tecniche per stirare meglio, ha contribuito a farla in un primo tempo “morire” un po’. Certo, il fatto di non avere altro sfogo se non i figli a causa del lavoro perduto e del marito sempre fuori casa (ancora una volta ritorna il tema dell’isolamento) non l’ha aiutata.
Mi sono resa conto che trasferirmi in una città in cui nessuno mi conosceva è stato rilevante per guarire. Sembra un paradosso perché in un momento di difficoltà avevo perso i miei punti di riferimento, ma in realtà è stata una gran liberazione.
Nel periodo in cui è nata Paola mio marito allenava una squadra di ragazzini a basket. Ricordo che nel paese in cui vivevamo i genitori – e non solo loro – mi fermavano per strada e mi chiedevano come stesse andando: mi sentivo sempre in dovere di giustificarmi per le mie scelte. Ad esempio sul fatto che non allattavo. E più mi giustificavo, più mi sentivo in colpa, perché leggevo nei loro occhi la disapprovazione. Certo, probabilmente avrei dovuto fregarmene, ma come dice il libro di Marilde spesso sono le donne che si costruiscono da sole le proprie gabbie.
Da un anno a questa parte viviamo altrove. Lontano dalle nostre famiglie. Ed è stato un bene. Se esco per strada posso essere un volto tra tanti, senza giudizio. E mi sento leggera. La solitudine, a volte, puoi provarla anche quando sei circondata da tante persone che dicono di conoscerti.
I (non) luoghi della maternità
Come sapete giovedì scorso sono stata ospite ad Alba, in provincia di Cuneo, per presentare una serata legata alla maternità e alla depressione post partum. E’ stata un’esperienza bellissima, che mi ha portato molti spunti di riflessione che vedrete sul sito attraverso le interviste delle professioniste che sono intervenute. Ho conosciuto di persona Marilde Trinchero, che con il suo libro “La solitudini delle madri” mi ha cambiato la vita. Mi ha regalato il suo lavoro successivo, “Reclusioni di corpi e di menti”, in cui si parla delle prigioni che le donne – volontariamente o meno – si scelgono. Anche qui c’è un capitolo sulla maternità, cosa che mi ha permesso di considerare l’argomento da un ulteriore punto di vista: il luogo in cui si vive determina l’insorgenza della depressione?
Pensavo di no, ritenendo che la malattia potesse insorgere dentro una madre indipendentemente dal contesto, invece anche dove si vive è un elemento fondamentale forse trascurato. La donna intervistata da Marilde ha spiegato che il vivere in un paesino in cui tutti la conoscono e in cui il massimo livello di conversazione riguarda le tecniche per stirare meglio, ha contribuito a farla in un primo tempo “morire” un po’. Certo, il fatto di non avere altro sfogo se non i figli a causa del lavoro perduto e del marito sempre fuori casa (ancora una volta ritorna il tema dell’isolamento) non l’ha aiutata.
Mi sono resa conto che trasferirmi in una città in cui nessuno mi conosceva è stato rilevante per guarire. Sembra un paradosso perché in un momento di difficoltà avevo perso i miei punti di riferimento, ma in realtà è stata una gran liberazione.
Nel periodo in cui è nata Paola mio marito allenava una squadra di ragazzini a basket. Ricordo che nel paese in cui vivevamo i genitori – e non solo loro – mi fermavano per strada e mi chiedevano come stesse andando: mi sentivo sempre in dovere di giustificarmi per le mie scelte. Ad esempio sul fatto che non allattavo. E più mi giustificavo, più mi sentivo in colpa, perché leggevo nei loro occhi la disapprovazione. Certo, probabilmente avrei dovuto fregarmene, ma come dice il libro di Marilde spesso sono le donne che si costruiscono da sole le proprie gabbie.
Da un anno a questa parte viviamo altrove. Lontano dalle nostre famiglie. Ed è stato un bene. Se esco per strada posso essere un volto tra tanti, senza giudizio. E mi sento leggera. La solitudine, a volte, puoi provarla anche quando sei circondata da tante persone che dicono di conoscerti.
Valentina Colmi
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