‘In un preciso momento di quelle lacrime, ho pensato che avrei voluto fare qualcosa per dare voce a quelle parole, anche questa volta soffocate dagli infiniti tabù del “devi essere felice” e basta…’
Gisella Congia è un’artista di Cagliari. Psicologa, inizia la sua conoscenza con la fotografia nel 1994. Con gli anni la forza del suo sguardo si afferma, vincendo anche numerosi premi sia nella sua terra sia in giro per l’Italia. Nel 2011 ha dato vita al progetto Chiaroscuri nella maternità, in cui ha fotografato 25 donne nella loro quotidianità di mamme, cercando di indagare – grazie alla potenza dell’immagine – che cosa significa veramente essere madri oggi. Da questo è nato un libro che riporta anche le testimonianze sul rapporto con i loro figli.
Gisella, com’è nato il progetto Chiaroscuri nella maternità? Come hai trovato le mamme protagoniste dei 25 scatti del libro?
Chiaroscuri nella maternità ha origine dalla mia personale esperienza del divenire madre, che ho vissuto sin dalla gravidanza con forti ambivalenze emotive. Nel vivere questi momenti ho riposto molta fiducia in tutto ciò che parlava di maternità, come manuali o riviste, trovandomi in realtà davanti a un mondo di testi, ma soprattutto di immagini, che mi rimandavano un’idea e una visione di madre molto diversa da come mi sentivo io: madri felici, armoniose, sorridenti, apparentemente mai in conflitto con la propria “pancia” o il neonato… io mi sentivo l’opposto e l’immagine che avevo di me non riusciva a riflettersi in niente. Così mi sono ripromessa che avrei fatto qualcosa per dire che tutto ciò non era reale, o perlomeno non lo è per tutte le donne che si accingono a acquisire il ruolo materno. Dopo un anno ho iniziato un lungo susseguirsi di interviste con tante mamme, prima le amiche, poi le amiche delle amiche, poi le mamme dell’asilo di mia figlia… Ho iniziato a studiare una vasta e interessante letteratura sull’argomento e nel 2011 ha preso forma il progetto artistico di Chiaroscuri nella Maternità.
Il tuo progetto riflette sull’immagine di una maternità “diversa”, nel senso che ragiona su ciò che spesso non viene detto: la fatica, i sentimenti ambivalenti, la solitudine nel vivere una nuova condizione. C’è ancora troppa vergogna secondo te nell’ammettere, quando si diventa mamme, di dire “non ce la faccio”?
Il progetto di Chiaroscuri racconta di una maternità quotidiana, nella quale la donna deve fare grandi compromessi tra ciò che era o faceva prima dell’arrivo del figlio e il dopo, compromessi con l’immagine che della donna viene costantemente rimandata dalla società, che non le da tregua neanche quando si parla di mamme (perfettamente pettinate, in linea, in taller mentre danno la prima pappa al bimbo, super organizzate e anche con del tempo libero, e così via …). Compromesso, ancor più grande, è quello con una società che è profondamente cambiata e vede la maternità oramai come un fatto privato, rinchiuso nelle mura del nucleo-coppia, e vissuto in grande solitudine. Io credo che questa sia la realtà che viviamo oggi. Il fatto di non guardarla con gli occhi dell’oggettività nega la possibilità di contemplare che la maternità possa avere nel vissuto della donna (così come del neopadre) dei risvolti legittimi, meno poetici e piacevoli di quelli propagandati. E’ una questione culturale, di tabù che si radicano. In altri paesi europei ci sono dei servizi di sostegno che nascono proprio dall’accoglienza di quel “non ce la faccio” che è visto come legittimo e da tutelare.
Nel libro c’è anche un dvd in cui diverse donne parlano del loro essere diventate mamme. C’è qualcosa che ti ha colpito delle loro storie e che in qualche modo ha influenzato il tuo lavoro?
Nel libro, oltre al progetto fotografico e alle riflessioni nate proprio dall’incontro con la letteratura, c’è il documento video realizzato con la mia amica e collega regista Emanuela Cau. Con lei abbiamo raccolto numerose testimonianze e abbiamo riso e pianto insieme alle donne che ci confidavano i loro vissuti. E’ stata una grande esperienza. Ciò che mi ha colpito di più, rafforzando l’idea di diffondere il lavoro, è stato il fatto che molte di loro ci ringraziavano per quello spazio di ascolto e condivisione privo di giudizio. Mentre eravamo noi a dover ringraziare loro per la testimonianza! Queste donne hanno aperto i loro vissuti più intimi, i bisogni spesso taciuti e i loro cuori. Alcune di loro, sono divenute “complici” di questo lavoro, aprendo anche le loro case e accettando di diventare protagoniste del progetto fotografico. Loro stesse non raccontano solo di sé, ma interpretano aspetti delle storie di tante altre donne che, magari, riconoscendosi possono rileggerli come normali e legittimi.
Tu ed Emanuela Cau avete vinto recentemente il premio Miglior documentario nel concorso “Il cinema racconta il lavoro” della Cineteca Sarda – Società Umanitaria con La mamma è il posto fisso in cui avete seguito una giornata di una mamma alle prese con i suoi due figli. Qual è l’obiettivo di quest’altro progetto legato alla maternità?
Ci si è sembrato importante sfatare un’altra credenza sociale sul ruolo materno, ovvero che la donna che rimane a casa per prendersi cura dei figli non stia “facendo nulla” o addirittura sia una privilegiata… Ispirate dalla domanda perenne “Non stai lavorando?”, che viene mossa alle donne con bambini piccoli, abbiamo voluto raccontare che anche fare la mamma è un lavoro. Un lavoro che, come qualsiasi altro mestiere, ha oneri e onori ma, a differenza degli altri, non è riconosciuto socialmente come tale.
Sul tuo profilo facebook hai una foto irriverente: tu che fumi mentre tua figlia fa l’aerosol. Sull’immagine c’è la scritta “Me, the imperfect mother”. L’immagine fotografica serve a catturare quella verità che non si riesce ad esprimere a parole?
“Me, the imperfect mother” è una personale ricerca di autoscatti che ho iniziato quando ho avuto bisogno di buttare fuori da me sensazioni di “imperfezione materna” a cui non riuscivo a dar voce con le parole. E’ il frutto del mio essere divenuta madre e l’aver sperimentato sulla mia esperienza l’enorme divario tra l’immagine pre-confezionata della madre perfetta e l’imperfezione quotidiana della realtà. Sono immagini nate come un urlo di protesta, una provocazione al buonismo, un personale atto liberatorio.
Che responsabilità hanno dal tuo punto di vista i media nella costruzione di un’immagine della maternità lontana dalla realtà e che spesso può causare dei malesseri piuttosto profondi nelle neo mamme come la depressione post partum? Quali immagini ti vengono in mente per descrivere la maternità oggi?
Credo che malesseri, quali la depressione post partum, abbiano radici molto più profonde dei messaggi veicolati dai mass media. E’ un problema culturale e sociale che, negando la possibilità di provare certe emozioni, le relega nella solitudine e nella sfera dell’indicibile facendole riecheggiare nell’intimo di chi le prova in maniera nefasta. Spesso lo stesso contesto familiare non è in grado di accogliere questi vissuti e, per prenderne le distanze, li nega o li sottovaluta. Sicuramente la grande responsabilità che attribuisco ai media è l’assenza attuale di una figura materna che contempli in maniera sana l’ambivalenza emotiva nell’acquisizione del ruolo genitoriale. Le immagini a disposizione delle donne si trovano su un continuum che va dalla madre perfetta a, nel suo opposto, le madri che commettono infanticidi…i media saltano completamente le immagini e le informazioni che investono il centro di questa dimensione e che rappresentano la maggior parte delle donne.
Una delle cause della depressione post partum può essere un parto difficile, come un cesareo. Il tuo prossimo progetto riguarda proprio loro, le cicatrici da cesareo. Secondo te, il compito di un artista è quello di riflettere la realtà mostrandola per come è oppure quello di anticipare i tempi, magari trovando un linguaggio “giusto” per parlare di argomenti tabù, come appunto la difficoltà di essere madri?
Non so esattamente se ci sia UN compito per un artista… posso dirti cosa ho scelto di fare io, che sono un po’ un ibrido tra i miei studi accademici e il mio linguaggio fotografico. Per me le immagini hanno un valore di immediatezza percettiva che spesso vale più di tante parole e possono generare una riflessione, non solo personale ma anche sociale. Sicuramente mi sento attratta dal narrare di argomenti che sono velati da tabù e, in questo periodo della mia vita, sento molto la voglia di raccontare l’essere madre in vari modi. Il progetto sulle ferite emotive da cesareo nasce dall’incontro casuale con un gruppo di donne cesarizzate. Io ho avuto un parto naturale, ma ho conosciuto le sofferenze che alcune donne possono provare con l’esperienza del cesareo da loro, dalle loro parole e dalle loro lacrime. In un preciso momento di quelle lacrime, ho pensato che avrei voluto fare qualcosa per dare voce a quelle parole, anche questa volta soffocate dagli infiniti tabù del “devi essere felice” e basta…
Gisella Congia e i ‘Chiaroscuri nella maternità’
‘In un preciso momento di quelle lacrime, ho pensato che avrei voluto fare qualcosa per dare voce a quelle parole, anche questa volta soffocate dagli infiniti tabù del “devi essere felice” e basta…’
Gisella Congia è un’artista di Cagliari. Psicologa, inizia la sua conoscenza con la fotografia nel 1994. Con gli anni la forza del suo sguardo si afferma, vincendo anche numerosi premi sia nella sua terra sia in giro per l’Italia. Nel 2011 ha dato vita al progetto Chiaroscuri nella maternità, in cui ha fotografato 25 donne nella loro quotidianità di mamme, cercando di indagare – grazie alla potenza dell’immagine – che cosa significa veramente essere madri oggi. Da questo è nato un libro che riporta anche le testimonianze sul rapporto con i loro figli.
Gisella, com’è nato il progetto Chiaroscuri nella maternità? Come hai trovato le mamme protagoniste dei 25 scatti del libro?
Chiaroscuri nella maternità ha origine dalla mia personale esperienza del divenire madre, che ho vissuto sin dalla gravidanza con forti ambivalenze emotive. Nel vivere questi momenti ho riposto molta fiducia in tutto ciò che parlava di maternità, come manuali o riviste, trovandomi in realtà davanti a un mondo di testi, ma soprattutto di immagini, che mi rimandavano un’idea e una visione di madre molto diversa da come mi sentivo io: madri felici, armoniose, sorridenti, apparentemente mai in conflitto con la propria “pancia” o il neonato… io mi sentivo l’opposto e l’immagine che avevo di me non riusciva a riflettersi in niente. Così mi sono ripromessa che avrei fatto qualcosa per dire che tutto ciò non era reale, o perlomeno non lo è per tutte le donne che si accingono a acquisire il ruolo materno. Dopo un anno ho iniziato un lungo susseguirsi di interviste con tante mamme, prima le amiche, poi le amiche delle amiche, poi le mamme dell’asilo di mia figlia… Ho iniziato a studiare una vasta e interessante letteratura sull’argomento e nel 2011 ha preso forma il progetto artistico di Chiaroscuri nella Maternità.
Il tuo progetto riflette sull’immagine di una maternità “diversa”, nel senso che ragiona su ciò che spesso non viene detto: la fatica, i sentimenti ambivalenti, la solitudine nel vivere una nuova condizione. C’è ancora troppa vergogna secondo te nell’ammettere, quando si diventa mamme, di dire “non ce la faccio”?
Il progetto di Chiaroscuri racconta di una maternità quotidiana, nella quale la donna deve fare grandi compromessi tra ciò che era o faceva prima dell’arrivo del figlio e il dopo, compromessi con l’immagine che della donna viene costantemente rimandata dalla società, che non le da tregua neanche quando si parla di mamme (perfettamente pettinate, in linea, in taller mentre danno la prima pappa al bimbo, super organizzate e anche con del tempo libero, e così via …). Compromesso, ancor più grande, è quello con una società che è profondamente cambiata e vede la maternità oramai come un fatto privato, rinchiuso nelle mura del nucleo-coppia, e vissuto in grande solitudine. Io credo che questa sia la realtà che viviamo oggi. Il fatto di non guardarla con gli occhi dell’oggettività nega la possibilità di contemplare che la maternità possa avere nel vissuto della donna (così come del neopadre) dei risvolti legittimi, meno poetici e piacevoli di quelli propagandati. E’ una questione culturale, di tabù che si radicano. In altri paesi europei ci sono dei servizi di sostegno che nascono proprio dall’accoglienza di quel “non ce la faccio” che è visto come legittimo e da tutelare.
Nel libro c’è anche un dvd in cui diverse donne parlano del loro essere diventate mamme. C’è qualcosa che ti ha colpito delle loro storie e che in qualche modo ha influenzato il tuo lavoro?
Nel libro, oltre al progetto fotografico e alle riflessioni nate proprio dall’incontro con la letteratura, c’è il documento video realizzato con la mia amica e collega regista Emanuela Cau. Con lei abbiamo raccolto numerose testimonianze e abbiamo riso e pianto insieme alle donne che ci confidavano i loro vissuti. E’ stata una grande esperienza. Ciò che mi ha colpito di più, rafforzando l’idea di diffondere il lavoro, è stato il fatto che molte di loro ci ringraziavano per quello spazio di ascolto e condivisione privo di giudizio. Mentre eravamo noi a dover ringraziare loro per la testimonianza! Queste donne hanno aperto i loro vissuti più intimi, i bisogni spesso taciuti e i loro cuori. Alcune di loro, sono divenute “complici” di questo lavoro, aprendo anche le loro case e accettando di diventare protagoniste del progetto fotografico. Loro stesse non raccontano solo di sé, ma interpretano aspetti delle storie di tante altre donne che, magari, riconoscendosi possono rileggerli come normali e legittimi.
Tu ed Emanuela Cau avete vinto recentemente il premio Miglior documentario nel concorso “Il cinema racconta il lavoro” della Cineteca Sarda – Società Umanitaria con La mamma è il posto fisso in cui avete seguito una giornata di una mamma alle prese con i suoi due figli. Qual è l’obiettivo di quest’altro progetto legato alla maternità?
Ci si è sembrato importante sfatare un’altra credenza sociale sul ruolo materno, ovvero che la donna che rimane a casa per prendersi cura dei figli non stia “facendo nulla” o addirittura sia una privilegiata… Ispirate dalla domanda perenne “Non stai lavorando?”, che viene mossa alle donne con bambini piccoli, abbiamo voluto raccontare che anche fare la mamma è un lavoro. Un lavoro che, come qualsiasi altro mestiere, ha oneri e onori ma, a differenza degli altri, non è riconosciuto socialmente come tale.
Sul tuo profilo facebook hai una foto irriverente: tu che fumi mentre tua figlia fa l’aerosol. Sull’immagine c’è la scritta “Me, the imperfect mother”. L’immagine fotografica serve a catturare quella verità che non si riesce ad esprimere a parole?
“Me, the imperfect mother” è una personale ricerca di autoscatti che ho iniziato quando ho avuto bisogno di buttare fuori da me sensazioni di “imperfezione materna” a cui non riuscivo a dar voce con le parole. E’ il frutto del mio essere divenuta madre e l’aver sperimentato sulla mia esperienza l’enorme divario tra l’immagine pre-confezionata della madre perfetta e l’imperfezione quotidiana della realtà. Sono immagini nate come un urlo di protesta, una provocazione al buonismo, un personale atto liberatorio.
Che responsabilità hanno dal tuo punto di vista i media nella costruzione di un’immagine della maternità lontana dalla realtà e che spesso può causare dei malesseri piuttosto profondi nelle neo mamme come la depressione post partum? Quali immagini ti vengono in mente per descrivere la maternità oggi?
Credo che malesseri, quali la depressione post partum, abbiano radici molto più profonde dei messaggi veicolati dai mass media. E’ un problema culturale e sociale che, negando la possibilità di provare certe emozioni, le relega nella solitudine e nella sfera dell’indicibile facendole riecheggiare nell’intimo di chi le prova in maniera nefasta. Spesso lo stesso contesto familiare non è in grado di accogliere questi vissuti e, per prenderne le distanze, li nega o li sottovaluta. Sicuramente la grande responsabilità che attribuisco ai media è l’assenza attuale di una figura materna che contempli in maniera sana l’ambivalenza emotiva nell’acquisizione del ruolo genitoriale. Le immagini a disposizione delle donne si trovano su un continuum che va dalla madre perfetta a, nel suo opposto, le madri che commettono infanticidi…i media saltano completamente le immagini e le informazioni che investono il centro di questa dimensione e che rappresentano la maggior parte delle donne.
Una delle cause della depressione post partum può essere un parto difficile, come un cesareo. Il tuo prossimo progetto riguarda proprio loro, le cicatrici da cesareo. Secondo te, il compito di un artista è quello di riflettere la realtà mostrandola per come è oppure quello di anticipare i tempi, magari trovando un linguaggio “giusto” per parlare di argomenti tabù, come appunto la difficoltà di essere madri?
Non so esattamente se ci sia UN compito per un artista… posso dirti cosa ho scelto di fare io, che sono un po’ un ibrido tra i miei studi accademici e il mio linguaggio fotografico. Per me le immagini hanno un valore di immediatezza percettiva che spesso vale più di tante parole e possono generare una riflessione, non solo personale ma anche sociale. Sicuramente mi sento attratta dal narrare di argomenti che sono velati da tabù e, in questo periodo della mia vita, sento molto la voglia di raccontare l’essere madre in vari modi. Il progetto sulle ferite emotive da cesareo nasce dall’incontro casuale con un gruppo di donne cesarizzate. Io ho avuto un parto naturale, ma ho conosciuto le sofferenze che alcune donne possono provare con l’esperienza del cesareo da loro, dalle loro parole e dalle loro lacrime. In un preciso momento di quelle lacrime, ho pensato che avrei voluto fare qualcosa per dare voce a quelle parole, anche questa volta soffocate dagli infiniti tabù del “devi essere felice” e basta…
Foto credits: Gisella Congia
Chiaroscuri nella maternità è acquistabile qui
Valentina Colmi
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