Ho partecipato in Rete ad un dibattito su quanto sia difficile per una donna ammettere di stare male una volta divenuta madre. Proprio in questi giorni una ragazza di 22 anni si è impiccata dopo aver forse soffocato il proprio bambino di 5 mesi. Ovviamente la depressione post partum è stata subito tirata in ballo; sembra che la giovane fosse in vacanza assieme alla nonna del piccolo per potersi riprendere dalla malattia.Purtroppo, come sappiamo, dalla dpp non ci riprende spontaneamente, non basta cambiare aria per fare andare via i brutti pensieri. Posso scommettere che per Cecilia – questo era il suo nome – fossero davvero tanti, visto che era stata abbandonata anche dal padre di suo figlio. Forse avrà pensato che non poteva soffrire così, che non era giusto e che neanche il bambino avrebbe dovuto.
Nessuno si è accorto di nulla, prima. Mi domando perché nei corsi pre parto si parli di tutto tranne che di quello che potrà accadere dopo; forse perché le mamme stesse pensano di essere migliori di quelle poverette che invece non ce la fanno. Perché a volte a me le future madri fanno paura, così ignoranti nella loro sorda felicità. Non si tratta di spaventare, di dire che tutto andrà male e che i mesi successivi alla nascita saranno un rincorrersi di brutti momenti, ma semplicemente di dare un’informazione. Se poi la si vuole seguire è una libera scelta, però intanto è entrata in circolo.
Deborah Papisca, una delle prime che in Italia ha parlato di dpp anche grazie al suo libro “Di materno avevo solo il latte” ha detto una cosa giusta: la rivoluzione deve cominciare dalle madri. Non possiamo pretendere che siano i sanitari a farlo per noi, perché spesso appunto nessuno si accorge di nulla. Non possiamo pretendere che siano i nostri famigliari a farlo per noi. Dobbiamo essere noi a cominciare appunto una rivoluzione culturale e sociale.
Se la società di oggi è cambiata, perché non si può ammettere che sia cambiato anche il modo di essere madre? Paradossalmente oggi una donna in gravidanza e poi neo mamma ha a disposizione molte più risorse informative, eppure la mamma deve corrispondere ad un archetipo, che di per sé è un concetto vecchio di secoli. Perché se ci pensate bene, come gioca una bambina a “fare la mamma”? In maniera dolce, paziente, amorevole. E’ quasi come se l’archetipo fosse introiettato nel gene femminile fin dalla nascita. Ed è sbagliato. Ci sono centomila modi di esserlo, ma una cosa secondo me dovrebbe accomunarli tutti: la verità.
Dovremmo essere noi le prime a promuovere una maternità “taylor made”, su misura per ciascuna di noi, un po’ come il piano del parto. Da qualche tempo si può scegliere come partorire, chi avere vicino, in quale posizione si sta più comode per il travaglio. Ecco, ognuna può fare come vuole e come si sente, senza sentirsi giudicata.
Perché noi madri siamo abilissime in questo: magari a parole diciamo “figurati, fai come vuoi”, ma dentro di noi sappiamo che stiamo agendo meglio, che siamo più brave, che se a quella è venuta la depressione post partum è perché probabilmente c’aveva la famiglia disastrata. Basta solo concentrarsi sull’allattamento al seno. Che due balle. Lo sappiamo: fa bene. Ma se una non riesce ad allattare, o non vuole farlo, che cosa deve fare?
Siamo noi madri che dobbiamo cambiare il modo di vivere la maternità per tutte. Senza paure. Senza polvere sotto il tappeto. Sì alla terapia, ai gruppi di aiuti, ai corsi pre parto dove ti insegnano le emozioni, quelle vere, non quelle della famiglia dei biscotti. E diciamole queste cose, a voce alta. Basta abbassare gli occhi.