Non ho molto da dire per l’intervista di oggi se non che per me è quella definitiva, quella che finalmente spiega una volta per tutte cos’è la depressione post partum anche in relazione agli infanticidi, visto che spesso i media fanno un’equazione sbagliata: una madre depressa non uccide suo figlio. Ricordiamoci che le parole sono importanti. Parole ricche di significato per questa bella intervista alla dottoressa Rosa Maria Quatraro, curatrice in ultimo dell’edizione italiana del libro di Karen Kleiman Guarire dalla depressione post partum. Indicazioni cliniche e terapia (Erickson, 2017).
Dottoressa Quatraro, ci può raccontare la sua formazione?
Sono una Psicologa Psicoterapeuta, mi sono specializzata in Psicologia Clinica e Psicoterapia nel 2002 all’Università di Padova. Dal 2000 lavoro presso il mio studio privato e come psicologa libero professionista presso il Servizio di Psicologia Ospedaliera della Ulss 8 Berica, dove sono la psicologa referente dell’area Ostetrica Ginecologica e del Centro Regionale per le Malformazioni Cranio facciali (Labiopalatoschisi ed altre malformazioni rare). Sono Codirettore della collana Editoriale di Psicologia della Maternità per la casa editrice Erickson e Membro della Marcè Society for Perinatal Mental Health e del Comitato Direttivo con funzione di Segretario della Società Marcè Italia.Dell’ambito perinatale mi occupo dal 1994 anno in cuiho iniziato la mia tesi di laurea e la frequenza della Clinica Ostetrica e del servizio di Psicoprofilassi Ostetricadell’Università di Padova dove sono rimasta fino al 2000, portando avanti diversi lavori di ricerca e pubblicazioni di articoli recensiti su riviste nazionali e internazionali proprio sulle difficoltà emotive delle donne nel periodo perinatale. Ma la svolta rispettoal mio lavoro in ambito perinatale è stata nel 2000 anno in cui ho iniziato a lavorare come libera professionistasia presso un Consultorio Familiare che presso il Reparto di Ginecologia Ostericia dell Ospedale di Vicenza. Quello è stato anche l’anno del I° Congresso Mondiale sulla Salute Mentale della Donna che si è tenuto a Berlino e che mi ha aperto gli occhi sulla realtà internazionale…è stato emozionante e stimolante…. Noi in Italia eravamo agli albori …..Lì ho trovato il testo di Janette Milgrom che proponeva un approccio biopsicosociale alla depressione postnatalee manualizzava laPsicoterapia di Gruppo della Depressione Postnatale. In Italia c’era solo un testo che parlava della depressione postpartum pubblicato (quella di Patrizia Romito). Così abbiamo pensato con il collega Pietro Grussu di proporre alla casa Editrice Erickson di aprire la collana di Psicologia della Maternità proprio con l’edizione italiana del testo di Janette Milgrom. E’ stato l’inizio di un’altra avventura molto bella e arricchente che continua tutt’oggi.
La mia formazione è poi proseguita oltre che con la frequenza di congressi internazionali, anchecon ulteriori approfondimenti sulla psicoterapia psicoanalitica,sulla teoria dell’attaccamento e sulla relazione madre bambino,con il lavoro quotidiano sul campo in reparto e in ambulatorio occupandomi non solo della depressione perinatale, ma della donna che durante la fase di transizione alla maternità può vivere situazioni emotivamente molto difficili legate a gravidanze che non arrivano, fecondazioni assistite ripetute, gravidanze al alto rischio, parti traumatici, lutti, post parti costellati di difficoltà, sofferenze emotive che richiamano echi di passati difficili magari poco riconosciuti o messi da parte fino a che …..non arrivano questi esserini a sconvolgere tutti gli equilibri esterni ed interni.
Cerchiamo innanzitutto di fare chiarezza: ammalarsi di depressione post partum non è una condizione sufficiente per parlare di infanticidio, è corretto?
Assolutamente no associare l’infanticidio e il neonaticidio alla depressione postpartum è arbitrario e fuorviante e non fa altro che aumentare le ansie e le angosce delle neomamme, anche quelle non depresse, ma che si sentono di attraversare un momento difficile. Bisogna tenere presente che le donne nel dopo parto sono spesso ansiose, hanno paure che loro stesse fanno fatica a spiegarsi, vivono un periodo di grande fragilità emotiva e sono facilmente suggestionabili. Invocare la depressione postpartum come giustificativo non è utile, è semplicistico e poco onesto….non si fa un buon servizio al cittadino e neppure alle mamme e ai loro bambini.
Proprio per questo vanno date informazioni chiare e attendibili. Va quindi spiegato che la depressione postpartum è una patologia che può essere più o meno grave, ma per arrivare ad atti così estremi servono un insieme di fattori che si vengono a sommare.Chi arriva all’infanticidio solitamente hastorie difficili alle spalle spesso con un passato di patologie psichiatriche e/o con famigliecon patologie psichiatriche, trascuratezza, storie di abusi e violenze assistite o vissute in prima persona. Il profilo che emerge di report clinici di chi con queste mamme ci lavora è quello di donne che spesso vivono in grande solitudine la loro sofferenza, sono circondate magari da familiari e amici che non riescono a cogliere il grave disagio che le affligge e che peggiora di giorno in giorno fino a sfociare in un atto estremo. Per arrivare a ciò però queste donne hanno trascorso giorni, settimane in uno stato di agitazione interna che spesso le porta a non poter dormire anche quando il bambino dorme. Ricordiamo che l’insonnia persistente e continua (assenza completa di sonno per settimane) porta a delle alterazioni della coscienza per cui ad un certo punto le donne possono comportarsi in maniera strana, intervengono ossessioni, deliri ed allucinazioni che di solito rigurdano il bambino, e la sua sicurezza/salvezza. Spesso sono donne che uccidono il figlio per salvarlo dal diavolo o da persone che immaginano voler fare loro del male o uccidono il figlio e magari si uccidono con lui per salvarlo da pensieri ed idee di rovina, in cui la morte è l’unica via di scampo per entrambi.
In altri casi possono essere donne che fin dall’inizio della gravidanza nutrono sentimenti di profondo rifiuto verso il bambino, sentimenti che se continuano dopo la nascita possono portare a delle distorsioni nella relazione che si palesano attraverso un atteggiamento rancoroso e talvolta trascurante/abusante verso il bambino stesso.
Si capisce comunque come in queste situazioni è presente una grave psicopatologia che di solito può essere riconosciuta tempestivamente dato che i segnali ci sono e devono essere colti prima di tutto dai familiari e dai curanti.
Uno degli aspetti più paurosi della DPP sono i pensieri intrusivi molto negativi soprattutto rivolti al bambino: si tratta appunto di pensieri che fanno sentire la donna davvero molto male (a volte pare di sentirsi sull’orlo di un baratro) ma che non portano a delle azioni concrete. Ce ne può parlare?
Questo è un argomento molto scottante per le neomamme …… nella nostra società è imperante un modello di idealizzato di maternità come massima realizzazione nella vita della donna. Ma le cose nella realtà non stanno proprio così per tutte. Le donne nel loro intimo spesso si sentono inadeguate, incapaci di soddisfare I bisogni del proprio bambino, e il confronto con le altre può essere una costante devastante da cui le donne escono psicologicamente malconce. A momenti si sentono delle madri incapaci, delle cattive mamme perché desidererebbero essere altrove, perché a tratti si possono chiedere …… “ma chi me lo ha fatto fare”, possono arrivare a desiderare di tornare indietro con il tempo.Di solito questi pensieri si condividono poco tra le donne nel postparto ..…. Alcune donne possono avere anche il pensiero che il bambino possa morire, possa soffocarsi, che possa succedere qualche cosa di brutto, possono avere fugaci pensieri di far del male più o meno accidentalmente al loro bambino, ma questi pensieri negativi per la maggior parte delle donne come arrivano poi se ne vanno spontaneamente e successivamente non creano turbamenti particolari nella quotidianità della propria vita.
Invece a chi soffre di depressione postpartum (circa nel 25/30% dei casi) o chi ha un disturbo ossessivo compulsivo perinatale accade che questi pensieri negativisi insinuino nella quotidinianità a poco a poco o in maniera improvvisa rompendo una sorta di incanto tra la mamma e il bambino oppure accentuando una difficoltà che già c’era. Quando questi pensieri diventano delle ossessioni, vengono avvertiti come intrusivi e persistenti. La mamma cerca di combatterli con altre azioni o altri pensieri o evitando di stare da sola con il bambino o limitando i contatti con il bambino stesso, rifuggendo il più possibile l’interazione. L’intensità dell’angoscia che questi pensieri e immagini possono creare nelle madri può portarle a vivere con il timore di impazzire di perdere il controllo e poter mettere in atto i propri pensieri. Proprio per questo ci si sente obbligati ad utilizzare delle strategie di evitamento, si nascondono i coltelli, si evitano le finestre, non si dorme per controllare che il bambino respiri. Ladonna che soffre di depressione postpartum è però in grado di riconoscere che questi pensieri e immagini sono il frutto della sua mentee che questi le creano un grave disagio. Ciò nonostante queste donnenon sempre chiedono aiuto facilmente, hanno paura, si sentono in colpa,si vergognano di come si sentono, temono che venga loro portato via il bambino. Troppo spesso questi rimangono pensieri segreti che consumano le donne nell’anima.L’angoscia che trasuda dai colloqui con queste madri può essere difficile da tollerare:è un’ansia dilagante paralizzante ea tratti, se non si è dei terapeuti esperti, può essere difficile da sostenere. Queste donne hanno bisogno di trovare qualcuno di cui fidarsi,di sentirsi capite e accolte, di poter parlare di questi pensieri, anche dei più inconfessabili. Anche i terapeuti non sempre sono preparati ad affrontare tanta angoscia e a reggerla. Queste mamme invece vanno aiutate facendo loro sentire (enon solo dicendoglielo) che qualsiasi cosa ci racconteranno, noi non ci spaventiamo perché sappiamo bene che questi sono pensieri, sintomi di una patologia che le sta facendo soffrire e che sappiamo che vengono da noi proprio perché desiderano essere aiutate a liberarsi da questi pensieri che le fanno sentire in una prigione. Queste sono situazioni dove il rischio di infanticidionon è rilevante come invece nelle situazioni in cui la donna perde il contatto con la realtà. Può infatti accadere che pensieri aggressivi si manifestino come coerenti con un pensiero delirante dove le azioni verso il bambino sono perpetrate per salvarlo. Queste donne non sentono senso di colpa, non provano vergogna ma pensano e pianificano di far del male al proprio bambino per sentirsi sollevate dalle angosce che provano e che sono slegate da quello che accade nella realtà concreta ma sono il frutto dei loro deliri e allucinazioni.
Un fattore molto importante in tali situazioni è la presenza vigile, accudente e sollecita dei familiari e dei curanti che devono riuscire ad instaurare un rapporto di fiducia, cogliere il disagio, chiedere apertamente alle madri dei loro pensieri e aiutare la donna ad avere fiducia che con le cure ne uscirà . Va però tenuto sempre ben presente che quando si manifestano questi pensieri ossessivi persistenti e intrusivi è necessario che la situazione venga valutata e monitorata attentamente da un professionista esperto di psicologia clinica e psicopatologia perinatale e che ci sia una presa in carico terapeutica non solo per il grave disagio che creano alla donna, ma anche per le ripercussioni che possono avere sulla relazione con il bambino e sull’intera famiglia.
Secondo la sua esperienza, quanto veramente si conosce la salute mentale materna sia in gravidanza sia nel post partum?
In Italia si stà lentamente creando la coscienza anche nelle donne che la salute mentale durante la gravidanza e nel dopoparto è importante sia per le ricadute sulla mamma che sul bambino ma anche per l’intera famiglia. Ci sono però molte resistenze legate alla stigmatizzazione della malattia mentale, all’idealizzazione imperante rispetto alla gravidanza e al dopo parto e alla disinformazione rispetto alle diverse sfumature emotive che caratterizzano il passaggio alla maternità. Purtroppo ancora troppo spesso le donne stesse credono all’equazione “sono in crisi, mi sento male, ho dei sintomi = sono pazza”. E’ chiaro che non è così, le diverse sfumature dei vissuti che caratterizzano questo momento della vita vanno accolti e guardati con attenzione e non sempre e solo nella logica presenza/assenza diuna patologia mentale. La letteratura stessa ci indica che anche se non è presente una diagnosi piena di un disturbo d’ansia o depressivo, il malessere vissuto dalla donna(il cosiddetto sottosoglia, che non permette di fare una diagnosi piena di un disturbo psichiatrico) può portare a delle conseguenze a lungo termine sia per lei che per I figli e la famiglia.
Se poi ci sono problemi fisici, spesso questi diventano un catalizzatore di tutte le attenzioni delle donnedei famigliari, talvolta anche dei curanti,con il risultato che le donne sofferenti nel corpo si pensa che sia normale che abbiano delle difficoltà emotive che poi passeranno da sole. Questo talvolta porta sia le donne che la collettività a sottovalutare l’impatto che il malessere emotivo legato alle vicende riproduttive (aborti, malfomazioni fetali, gravidanze ad alto rischio, fecondazioni assitite con le relative dolorose storie di infertilità, parti difficili, nascite premature ecc) possono avere sulla donna e sul bambino.Su questo c’è ancora molto da lavorare ..…. le donne hanno bisogno che ci si occupi della loro salute fisica, ma contemporaneamente anche della loro salute emotiva senza separare ancora mente e corpo.
Quanta difficoltà c’è nel chiedere aiuto?
La difficoltà è molta sia in gravidanza che nel dopo parto. In gravidanza le donne chiedono aiuto psicologico solo se l’angoscia è intollerabile, arrivano molto provate e talvolta si tratta di una sorta di ricaduta rispetto a disturbi depressivi o ansiosi precedenti o che già c’erano e che subiscono una esacerbazione.Chi ha già avuto dei disturbi prima della gravidanza è più a rischio. In generale la mia esperienza clinica così come gli studipubblicati sull’argomento ci dicono che queste donne spesso non chiedono aiuto perché “tengono duro” credendo che con il parto e la nascita del bambino poi staranno meglio, ma nella maggior parte dei casi questo non avviene . Anzi in proposito è importante considerare che la depressione ma soprattutto l’ansia (che viene spesso sottovalutata) in gravidanza sono fattori di rischio importanti per disturbi emotivi nel postparto.
Per quanto riguarda invece il dopo parto dobbiamo tenere presente che la depressione postpartum o un disturbo emotivo postnatale può manifestarsi nel corso di tutto il primo anno dopo il parto.
Spesso, una volta dimesse dall’ospedale, le donne sono sole anche se bombardate da messaggini, gruppi di mamme che esprimono pareri di tutti I tipi, offerte di gruppi e di iniziative di ogni genere. Chi sta veramente male, spesso non riesce però a cogliere queste occasioni di condivisione e si isola, sente impossible uscire dalle proprie paure e dalle proprie difficoltà che si ingigantiscono giorno dopo giorno. Le difficoltà di una neomamma sono tante e lo stress dell’accudimento e dell’ adattamento alla nuova vita può consumare e rendere incapaci di far fronte anche alle situazioni apparentemente più semplici.
Secondo lei quali sono i fattori che influiscono maggiormente? E perché c’è difficoltà nel trovare una diagnosi?
Un primo fattore che influisce sulla capacità di chiedere aiuto è legato alla natura stessa della depressione. Si ha l’impressione che nessuno potrà aiutarci. Le donne che stanno male nel dopo parto sono però anche molto angosciate e preoccupate, si sentono profondamente incapaci nella loro funzione materna che vedono esprimersi nel riuscire ad allattare, a calmare e gestire il loro bambino, nel tenere la casa, nel poter magari ritornare velocemente alla vita di prima …… Insomma tutto sotto controllo.A questo si aggiungono gli stereotipi legati alla maternità come momento in cui tutte sono felici (“ed io no, per colpa mia, non sono abbastanza brava”…pensa la donna che stà male). E a questo è poi legato un’altro fattore già citato cioè lo stigma rispetto alla malattia mentale ed in particular modo alla depressione che viene a sua volta collegata all’essere una “cattiva madre” che danneggia il figlio. La mia esperienza è che oggi per molte donne è difficile accettare di fermarsi, accettare I propri limiti e le proprie fragilità, hanno un’alto ideale di sé e faticano ad accettare di non essere madri perfette, efficienti e capaci di bambini perfetti che mangiano e dormono.La distorsione legata alle insicurezze più o meno profonde le porta ad essere molto esigenti con se stesse c’è poco spazio per l’errore, per il non riuscire, entrano subito in crisi di fronte alle difficoltà di una realtà come quella della maternità che apre a dimensioni di sé e della propria interiorità sconosciute e che possono anche spaventare ed angosciare. Chiedere aiuto significa per queste donne essere deboli. D’altra parte dobbiamo pensare che è la nostra stessa società che dà questo tipo di messaggio, efficienza, competitività, velocità e soprattutto indipendenza vengono esaltati come aspetti daperseguire. Farsi aiutare significa essere capaci di dipendere dall’altro, accettare un rapporto asimmetrico. Questo aspetto è rifuggito ..le terapie devono essere brevi, e non solo per fattori economici, sotto spesso c’è l’evitamento della dipendenza….
Insieme a questi fattori che ostacolano la presa in carico delle donne sofferenti se ne aggiunge un’altro importantissimo che è legato al contesto familiare e il contesto dell’assitenza socio sanitaria.
Familiari e curanti non sono sempre attenti a capaci di cogliere il disagio. Il contesto dell’assistenza alla gravidanza e al dopo parto nel nostro paese è organizzato in maniera differente da Regione a Regione, totalmente focalizzato sull’asssitenza e sul monitoraggio degli aspetti fisici con una quasi totale assenza di attenzione per gli aspetti di benessere psicologico e di salute mentale. In Italia siamo ancora piuttosto indietro rispetto ad altri paesi europei e al contesto internazionale. Sarebbe necessaria una maggiore sensibilizzazione e informazione delle donne già dall’inizio della gravidanza rispetto alla salute emotiva (come si fa con la salute fisica). Un ‘altro elemento importantissimo è che manca per ora un diffuso programma di screening e monitoraggio della salute emotiva che sia predisposto dal Ministero della Salute. Questo dovrebbe partire già dalla gravidanza e continuare anche nel dopo parto, con una formazione adeguata alla relazione con la gestante e la puerpera da parte di tutto il personale sanitario (medico e paramedico) che si occupa della donna e del bambino in questa delicata fase di transizione. Il personale spesso fa del proprio meglio in mezzo a tagli della sanità, ritmi e condizioni di lavoro che difficilmente permettono di potersi fermare ad ascoltare e a fare una riflessione individuale o di equipè sul prorio lavoro con i singoli pazienti.
C’è poi il contesto familiare che spesso fatica a comprendere se e quanto la donna stà male. Spesso si tende a negare che ci sono delle difficoltàe i familiari magari colludono con la negazione stessa della donna, mentre altre volte i familiari negano le difficoltà che la donna lamenta sminuendole e relativizzandole peggiorando ancora di più il senso di inadeguatezza e confusione in cui la donna si trova. Credo che serva un’adeguata informazionedell’opinione pubblica e delle famiglie circa i disturbi emotivi perinatali e la depressione postpartum in generale, ma anche un contesto relazionale familiare che sia realmente capace di ascolto e cura reciproca. Su questo ultimo aspetto purtroppo possiamo fare poco, ma sicuramente laddove ci accorgiamo che manca questo tipo di contesto dovrebbe essere previsto un monitoraggio più attento da parte dei curanti (le osteriche dei corsi di preparazione al parto, il ginecologo, il pediatra o altre figure che si occupano dell’assistenza perinatale).
Cosa direbbe come terapeuta ad una donna che venisse da lei, disperata, pensando che la sua vita sarà sempre così?
So bene a cosa si riferisce …… è un’angoscia che non trova neppure parole per potersi esprimere e che viene verbalizzata quando va bene con la domanda “dottoressa ne uscirò mai?” Quando va male con l’affermazione perentoria “non ne uscirò mai”. Può essere utile, ma non sempre, dire che sì, insieme faremo in modo che esca da questa situazione. Non sono le parole, ma il clima affettivo che si crea, il momento in cui sono dette che fa la differenza tra parole che arrivano, risuonano dentro e “nutrono” e parole ripetute come litanie ossessive che a poco servono.
Per cui, di solito, quando una donna disperata arriva nel mio studio la prima cosa che faccio è non fare, non mi faccio prendere dall’urgenza, a meno che non valuti di essere di fronte a una reale urgenza. Mi metto in ascolto di quello che la donna mi dice e di quello che non mi dice, di come me lo dice. Nel contempo mi metto in ascolto delle mie sensazioni ed emozioni, di come mi sento di fronte a tanta disperazione. Non ho delle parole standard e non ho neppure la bacchetta magica. Quello che so, che è di aiuto, è che la donna possa uscire dal mio studio portandosi a casa qualche cosa di buono per sé; è farle sentire che io capisco e riesco a restituirle un briciolo di speranza e, se non c’è questa possibilità, almeno la speranza che insiemepian piano riusciremo a ritrovare la speranza perduta.
Il ruolo della famiglia è fondamentale: come si deve comportare nei confronti della donna che soffre di DPP?
Una donna che soffre di depressione postpartum ha sicuramente bisogno della presenza attenta e partecipe del compagno. Presenza fisica ed emotiva. E’ importante che il partner, anche se lavora, quando torna cerchi essere disponibile a sollevare la donna dalla cura del bambino, la aiuti durante la notte, magari stabilendo dei turni, cerchi di attivare, quando è necessario, le risorse esterne alla coppia che la donna da sola non è in grado di attivare (medico, ostetrica, cerchia amicale). Il compagno, se la depressione è molto marcata, è importante che faccia da regista (la donna spesso non vuole chiedere aiuto, non sa come muoversi) accompagni la donna alle visite (o preveda che un parente o amico la accompagni se lui non può) parli con I curanti e si preoccupi anche insieme ai curanti e alla donna di fare una sorta di piano organizzativo di come gestire la situazione familiare attingendo alle fonti di supporto disponibili. In generale direi che, a seconda della gravità della situazione, la donna deve essere aiutata anche nelle incombenze concrete e, nei casi più pesanti, deve essere lasciata il meno sola possibile. Questo non per evitare che faccia del male al bambino, come spesso si crede (questa eventualità deve essere valutata sempre da un clinic e comunque riguarda una piccolissima minoranza di casi), ma invece perché la presenza dell’altro per molte donne può essere rassicurante. Sanno a chi chiedere, sanno che se non ce la fanno possono lasciare il bambino all’altro, si sentono alleggerite e protette quando sono in preda alle angosce e ai pensieri ad esempio di poter far del male al bambino. In queste ultime situazioni avere qualcuno accanto, permette a queste donne in prima battuta di poter accudire il loro bambino con un po’ meno di angoscia perché sentono che l’altro è garanzia che non succederà nulla di brutto. Le famiglie allargate possono essere una risorsa nella misura in cui vengono percepite come tali dalla donna. Per cui, il consiglio che posso dare è di attivare tutte le risorse familiari dando a ciascuno un compito adeguato alla situazione anche relazionale presente nella famiglia. Se con la cognata c’è un rapporto migliore rispetto a quello presente con la propria madre, è meglio che sia lei a passare del tempo con la donna e chiedere alla madre di dare un supporto strumentale, magari facendo la spesa o preparando dei pasti da surgelare ecc. Piccoli accorgimenti che fanno la differenza perchè non c’è nulla di peggio che stare male ed essere costretti a ritrovarsi per casa familiari con cui si ha un cattivo rapporto. Questo in certi casi può addirittura accentuare il malessere.
In quanto tempo si guarisce? E’ necessario continuare ad avere un supporto anche dopo?
Questa è una domanda difficile perché sotto la dicitura di depressione postpartum stanno situazioni di malattia e di disagio psicologico molto diverse. Nei casi più lievi, che spesso insorgono già dalle prime settimane dopo il parto, può essere sufficiente una terapia breve con cicli ripetibili di 8 colloqui a frequenza settimanale (così faccio io ad esempio). Comunque, io raccomando sempre una frequenza settimanale fino a che non si è a buon punto della terapia. Per I casi invece più pesanti, le terapie si prolungano e talvolta all’inizio possono essere anche intensive per il grande bisogno di contenimento che le donne hanno. Un’altra variabile che può influire sulla durata è l’utilizzo o meno dei farmaci associati alla psicoterapia. In alcuni casi sono assolutamente necessari per sollevare la donna dall’angoscia pervasiva causata dai sintomi (come ad esempio attacchi di panico, pensieri ossessivi, in taluni casi anedonia e incapacità di alzarsi dal letto ecc).
Un’altra variabile ancora è legata a quale obiettivo si persegue con la presa in carico della donna, se l’obiettivo è la sola diminuzione dei sintomi allora è possible che la terapia abbia una durata breve (sei mesi) o media (un anno o più) a seconda anche della gravità della depressione. Per alcune donne però questo le fa stare solo parzialmente meglio, per alcune è importante anche capire cosa è successo dentro di loro che improvvisamente le ha portate a stare così male e a provare sentimenti che fanno fatica a riconoscere come propri. Per queste donne che cercano un senso alla spaccatura che la malattia ha causato nella loro vita, spesso è necessaria una terapia a lungo termine che le aiuti ad elaborare in maniera più profonda ed integrare nella loro identità di donne madri quanto accaduto.
Chiaramente, i servizi pubblici possono offrire – oggi come oggi quando va bene – delle terapie brevi, in genere cognitivo comportamentali, che possono essere di aiuto nella riduzione dei sintomi, ma nei casi più impegnativi o per chi sente il bisogno di integrare quanto accaduto nella percezione di sè come madre e donna sono necessarie terapie a medio e lungo termine. A mio avviso queste possono avere il vantaggio di aprire a parti di sé magari sconosciute fino al momento della crisi, con benefici per la vita della donna e per la sua capacità di crescere come madre insieme a propri figli. Teniamo presente però che una terapia lunga non è una garanzia sempre di maggior benessere e di maggior tutela rispetto alle ricadute. Io credo che se un percorso terapeutico è stato completato senza fretta (e questo non sempre è possibile per vari motivi compresi quelli economici) non è necessario continuare ad avere un supporto programmato. Chiaro che la disponibilità a riprendere i colloqui, per alcuni aspetti magari rimasti in secondo piano che possono palesarsi in seguito ad eventi di vita o con la crescita dei figli, a mio avviso va sempre data. Una terapia di supporto può essere molto utile in alcuni casi comenelle situazioni di depressione lieve o quando per qualche motivo la terapia si conclude ma rimane la necessità di un supporto rispetto ad aspetti specifici, oppure quando la terapia si conclude anzitempo o quando ci sono situazioni particolari legate a bisogni specifici inerenti situazioni sia di malattia che di contesto familiare e sociale. Come si può capire però è difficile rispondere a queste ultime duedomande perché ogni donna è un mondo a se e va aiutata in maniera unica, perché ogni relazione terapeutica è unica e siccome ciò che cura non sono solo le tecniche ma la relazione terapeutica che si instaura dentro la quale si declina la tecnica, non esiste una regola fissa che ci dica quanto una terapia deve durare.
Rosa Maria Quatraro, terapeuta: “Non basta la depressione post partum per arrivare all’infanticidio”
Non ho molto da dire per l’intervista di oggi se non che per me è quella definitiva, quella che finalmente spiega una volta per tutte cos’è la depressione post partum anche in relazione agli infanticidi, visto che spesso i media fanno un’equazione sbagliata: una madre depressa non uccide suo figlio. Ricordiamoci che le parole sono importanti. Parole ricche di significato per questa bella intervista alla dottoressa Rosa Maria Quatraro, curatrice in ultimo dell’edizione italiana del libro di Karen Kleiman Guarire dalla depressione post partum. Indicazioni cliniche e terapia (Erickson, 2017).
Dottoressa Quatraro, ci può raccontare la sua formazione?
Sono una Psicologa Psicoterapeuta, mi sono specializzata in Psicologia Clinica e Psicoterapia nel 2002 all’Università di Padova. Dal 2000 lavoro presso il mio studio privato e come psicologa libero professionista presso il Servizio di Psicologia Ospedaliera della Ulss 8 Berica, dove sono la psicologa referente dell’area Ostetrica Ginecologica e del Centro Regionale per le Malformazioni Cranio facciali (Labiopalatoschisi ed altre malformazioni rare). Sono Codirettore della collana Editoriale di Psicologia della Maternità per la casa editrice Erickson e Membro della Marcè Society for Perinatal Mental Health e del Comitato Direttivo con funzione di Segretario della Società Marcè Italia. Dell’ambito perinatale mi occupo dal 1994 anno in cui ho iniziato la mia tesi di laurea e la frequenza della Clinica Ostetrica e del servizio di Psicoprofilassi Ostetrica dell’Università di Padova dove sono rimasta fino al 2000, portando avanti diversi lavori di ricerca e pubblicazioni di articoli recensiti su riviste nazionali e internazionali proprio sulle difficoltà emotive delle donne nel periodo perinatale. Ma la svolta rispetto al mio lavoro in ambito perinatale è stata nel 2000 anno in cui ho iniziato a lavorare come libera professionista sia presso un Consultorio Familiare che presso il Reparto di Ginecologia Ostericia dell Ospedale di Vicenza. Quello è stato anche l’anno del I° Congresso Mondiale sulla Salute Mentale della Donna che si è tenuto a Berlino e che mi ha aperto gli occhi sulla realtà internazionale…è stato emozionante e stimolante…. Noi in Italia eravamo agli albori …..Lì ho trovato il testo di Janette Milgrom che proponeva un approccio biopsicosociale alla depressione postnatale e manualizzava la Psicoterapia di Gruppo della Depressione Postnatale. In Italia c’era solo un testo che parlava della depressione postpartum pubblicato (quella di Patrizia Romito). Così abbiamo pensato con il collega Pietro Grussu di proporre alla casa Editrice Erickson di aprire la collana di Psicologia della Maternità proprio con l’edizione italiana del testo di Janette Milgrom. E’ stato l’inizio di un’altra avventura molto bella e arricchente che continua tutt’oggi.
La mia formazione è poi proseguita oltre che con la frequenza di congressi internazionali, anche con ulteriori approfondimenti sulla psicoterapia psicoanalitica, sulla teoria dell’attaccamento e sulla relazione madre bambino, con il lavoro quotidiano sul campo in reparto e in ambulatorio occupandomi non solo della depressione perinatale, ma della donna che durante la fase di transizione alla maternità può vivere situazioni emotivamente molto difficili legate a gravidanze che non arrivano, fecondazioni assistite ripetute, gravidanze al alto rischio, parti traumatici, lutti, post parti costellati di difficoltà, sofferenze emotive che richiamano echi di passati difficili magari poco riconosciuti o messi da parte fino a che …..non arrivano questi esserini a sconvolgere tutti gli equilibri esterni ed interni.
Cerchiamo innanzitutto di fare chiarezza: ammalarsi di depressione post partum non è una condizione sufficiente per parlare di infanticidio, è corretto?
Assolutamente no associare l’infanticidio e il neonaticidio alla depressione postpartum è arbitrario e fuorviante e non fa altro che aumentare le ansie e le angosce delle neomamme, anche quelle non depresse, ma che si sentono di attraversare un momento difficile. Bisogna tenere presente che le donne nel dopo parto sono spesso ansiose, hanno paure che loro stesse fanno fatica a spiegarsi, vivono un periodo di grande fragilità emotiva e sono facilmente suggestionabili. Invocare la depressione postpartum come giustificativo non è utile, è semplicistico e poco onesto….non si fa un buon servizio al cittadino e neppure alle mamme e ai loro bambini.
Proprio per questo vanno date informazioni chiare e attendibili. Va quindi spiegato che la depressione postpartum è una patologia che può essere più o meno grave, ma per arrivare ad atti così estremi servono un insieme di fattori che si vengono a sommare. Chi arriva all’infanticidio solitamente ha storie difficili alle spalle spesso con un passato di patologie psichiatriche e/o con famiglie con patologie psichiatriche, trascuratezza, storie di abusi e violenze assistite o vissute in prima persona. Il profilo che emerge di report clinici di chi con queste mamme ci lavora è quello di donne che spesso vivono in grande solitudine la loro sofferenza, sono circondate magari da familiari e amici che non riescono a cogliere il grave disagio che le affligge e che peggiora di giorno in giorno fino a sfociare in un atto estremo. Per arrivare a ciò però queste donne hanno trascorso giorni, settimane in uno stato di agitazione interna che spesso le porta a non poter dormire anche quando il bambino dorme. Ricordiamo che l’insonnia persistente e continua (assenza completa di sonno per settimane) porta a delle alterazioni della coscienza per cui ad un certo punto le donne possono comportarsi in maniera strana, intervengono ossessioni, deliri ed allucinazioni che di solito rigurdano il bambino, e la sua sicurezza/salvezza. Spesso sono donne che uccidono il figlio per salvarlo dal diavolo o da persone che immaginano voler fare loro del male o uccidono il figlio e magari si uccidono con lui per salvarlo da pensieri ed idee di rovina, in cui la morte è l’unica via di scampo per entrambi.
In altri casi possono essere donne che fin dall’inizio della gravidanza nutrono sentimenti di profondo rifiuto verso il bambino, sentimenti che se continuano dopo la nascita possono portare a delle distorsioni nella relazione che si palesano attraverso un atteggiamento rancoroso e talvolta trascurante/abusante verso il bambino stesso.
Si capisce comunque come in queste situazioni è presente una grave psicopatologia che di solito può essere riconosciuta tempestivamente dato che i segnali ci sono e devono essere colti prima di tutto dai familiari e dai curanti.
Uno degli aspetti più paurosi della DPP sono i pensieri intrusivi molto negativi soprattutto rivolti al bambino: si tratta appunto di pensieri che fanno sentire la donna davvero molto male (a volte pare di sentirsi sull’orlo di un baratro) ma che non portano a delle azioni concrete. Ce ne può parlare?
Questo è un argomento molto scottante per le neomamme …… nella nostra società è imperante un modello di idealizzato di maternità come massima realizzazione nella vita della donna. Ma le cose nella realtà non stanno proprio così per tutte. Le donne nel loro intimo spesso si sentono inadeguate, incapaci di soddisfare I bisogni del proprio bambino, e il confronto con le altre può essere una costante devastante da cui le donne escono psicologicamente malconce. A momenti si sentono delle madri incapaci, delle cattive mamme perché desidererebbero essere altrove, perché a tratti si possono chiedere …… “ma chi me lo ha fatto fare”, possono arrivare a desiderare di tornare indietro con il tempo. Di solito questi pensieri si condividono poco tra le donne nel postparto ..…. Alcune donne possono avere anche il pensiero che il bambino possa morire, possa soffocarsi, che possa succedere qualche cosa di brutto, possono avere fugaci pensieri di far del male più o meno accidentalmente al loro bambino, ma questi pensieri negativi per la maggior parte delle donne come arrivano poi se ne vanno spontaneamente e successivamente non creano turbamenti particolari nella quotidianità della propria vita.
Invece a chi soffre di depressione postpartum (circa nel 25/30% dei casi) o chi ha un disturbo ossessivo compulsivo perinatale accade che questi pensieri negativi si insinuino nella quotidinianità a poco a poco o in maniera improvvisa rompendo una sorta di incanto tra la mamma e il bambino oppure accentuando una difficoltà che già c’era. Quando questi pensieri diventano delle ossessioni, vengono avvertiti come intrusivi e persistenti. La mamma cerca di combatterli con altre azioni o altri pensieri o evitando di stare da sola con il bambino o limitando i contatti con il bambino stesso, rifuggendo il più possibile l’interazione. L’intensità dell’angoscia che questi pensieri e immagini possono creare nelle madri può portarle a vivere con il timore di impazzire di perdere il controllo e poter mettere in atto i propri pensieri. Proprio per questo ci si sente obbligati ad utilizzare delle strategie di evitamento, si nascondono i coltelli, si evitano le finestre, non si dorme per controllare che il bambino respiri. La donna che soffre di depressione postpartum è però in grado di riconoscere che questi pensieri e immagini sono il frutto della sua mente e che questi le creano un grave disagio. Ciò nonostante queste donne non sempre chiedono aiuto facilmente, hanno paura, si sentono in colpa, si vergognano di come si sentono, temono che venga loro portato via il bambino. Troppo spesso questi rimangono pensieri segreti che consumano le donne nell’anima. L’angoscia che trasuda dai colloqui con queste madri può essere difficile da tollerare: è un’ansia dilagante paralizzante e a tratti, se non si è dei terapeuti esperti, può essere difficile da sostenere. Queste donne hanno bisogno di trovare qualcuno di cui fidarsi, di sentirsi capite e accolte, di poter parlare di questi pensieri, anche dei più inconfessabili. Anche i terapeuti non sempre sono preparati ad affrontare tanta angoscia e a reggerla. Queste mamme invece vanno aiutate facendo loro sentire (e non solo dicendoglielo) che qualsiasi cosa ci racconteranno, noi non ci spaventiamo perché sappiamo bene che questi sono pensieri, sintomi di una patologia che le sta facendo soffrire e che sappiamo che vengono da noi proprio perché desiderano essere aiutate a liberarsi da questi pensieri che le fanno sentire in una prigione. Queste sono situazioni dove il rischio di infanticidio non è rilevante come invece nelle situazioni in cui la donna perde il contatto con la realtà. Può infatti accadere che pensieri aggressivi si manifestino come coerenti con un pensiero delirante dove le azioni verso il bambino sono perpetrate per salvarlo. Queste donne non sentono senso di colpa, non provano vergogna ma pensano e pianificano di far del male al proprio bambino per sentirsi sollevate dalle angosce che provano e che sono slegate da quello che accade nella realtà concreta ma sono il frutto dei loro deliri e allucinazioni.
Un fattore molto importante in tali situazioni è la presenza vigile, accudente e sollecita dei familiari e dei curanti che devono riuscire ad instaurare un rapporto di fiducia, cogliere il disagio, chiedere apertamente alle madri dei loro pensieri e aiutare la donna ad avere fiducia che con le cure ne uscirà . Va però tenuto sempre ben presente che quando si manifestano questi pensieri ossessivi persistenti e intrusivi è necessario che la situazione venga valutata e monitorata attentamente da un professionista esperto di psicologia clinica e psicopatologia perinatale e che ci sia una presa in carico terapeutica non solo per il grave disagio che creano alla donna, ma anche per le ripercussioni che possono avere sulla relazione con il bambino e sull’intera famiglia.
Secondo la sua esperienza, quanto veramente si conosce la salute mentale materna sia in gravidanza sia nel post partum?
In Italia si stà lentamente creando la coscienza anche nelle donne che la salute mentale durante la gravidanza e nel dopo parto è importante sia per le ricadute sulla mamma che sul bambino ma anche per l’intera famiglia. Ci sono però molte resistenze legate alla stigmatizzazione della malattia mentale, all’idealizzazione imperante rispetto alla gravidanza e al dopo parto e alla disinformazione rispetto alle diverse sfumature emotive che caratterizzano il passaggio alla maternità. Purtroppo ancora troppo spesso le donne stesse credono all’equazione “sono in crisi, mi sento male, ho dei sintomi = sono pazza”. E’ chiaro che non è così, le diverse sfumature dei vissuti che caratterizzano questo momento della vita vanno accolti e guardati con attenzione e non sempre e solo nella logica presenza/assenza di una patologia mentale. La letteratura stessa ci indica che anche se non è presente una diagnosi piena di un disturbo d’ansia o depressivo, il malessere vissuto dalla donna (il cosiddetto sottosoglia, che non permette di fare una diagnosi piena di un disturbo psichiatrico) può portare a delle conseguenze a lungo termine sia per lei che per I figli e la famiglia.
Se poi ci sono problemi fisici, spesso questi diventano un catalizzatore di tutte le attenzioni delle donne dei famigliari, talvolta anche dei curanti, con il risultato che le donne sofferenti nel corpo si pensa che sia normale che abbiano delle difficoltà emotive che poi passeranno da sole. Questo talvolta porta sia le donne che la collettività a sottovalutare l’impatto che il malessere emotivo legato alle vicende riproduttive (aborti, malfomazioni fetali, gravidanze ad alto rischio, fecondazioni assitite con le relative dolorose storie di infertilità, parti difficili, nascite premature ecc) possono avere sulla donna e sul bambino. Su questo c’è ancora molto da lavorare ..…. le donne hanno bisogno che ci si occupi della loro salute fisica, ma contemporaneamente anche della loro salute emotiva senza separare ancora mente e corpo.
Quanta difficoltà c’è nel chiedere aiuto?
La difficoltà è molta sia in gravidanza che nel dopo parto. In gravidanza le donne chiedono aiuto psicologico solo se l’angoscia è intollerabile, arrivano molto provate e talvolta si tratta di una sorta di ricaduta rispetto a disturbi depressivi o ansiosi precedenti o che già c’erano e che subiscono una esacerbazione. Chi ha già avuto dei disturbi prima della gravidanza è più a rischio. In generale la mia esperienza clinica così come gli studi pubblicati sull’argomento ci dicono che queste donne spesso non chiedono aiuto perché “tengono duro” credendo che con il parto e la nascita del bambino poi staranno meglio, ma nella maggior parte dei casi questo non avviene . Anzi in proposito è importante considerare che la depressione ma soprattutto l’ansia (che viene spesso sottovalutata) in gravidanza sono fattori di rischio importanti per disturbi emotivi nel postparto.
Per quanto riguarda invece il dopo parto dobbiamo tenere presente che la depressione postpartum o un disturbo emotivo postnatale può manifestarsi nel corso di tutto il primo anno dopo il parto.
Spesso, una volta dimesse dall’ospedale, le donne sono sole anche se bombardate da messaggini, gruppi di mamme che esprimono pareri di tutti I tipi, offerte di gruppi e di iniziative di ogni genere. Chi sta veramente male, spesso non riesce però a cogliere queste occasioni di condivisione e si isola, sente impossible uscire dalle proprie paure e dalle proprie difficoltà che si ingigantiscono giorno dopo giorno. Le difficoltà di una neomamma sono tante e lo stress dell’accudimento e dell’ adattamento alla nuova vita può consumare e rendere incapaci di far fronte anche alle situazioni apparentemente più semplici.
Secondo lei quali sono i fattori che influiscono maggiormente? E perché c’è difficoltà nel trovare una diagnosi?
Un primo fattore che influisce sulla capacità di chiedere aiuto è legato alla natura stessa della depressione. Si ha l’impressione che nessuno potrà aiutarci. Le donne che stanno male nel dopo parto sono però anche molto angosciate e preoccupate, si sentono profondamente incapaci nella loro funzione materna che vedono esprimersi nel riuscire ad allattare, a calmare e gestire il loro bambino, nel tenere la casa, nel poter magari ritornare velocemente alla vita di prima …… Insomma tutto sotto controllo. A questo si aggiungono gli stereotipi legati alla maternità come momento in cui tutte sono felici (“ed io no, per colpa mia, non sono abbastanza brava”…pensa la donna che stà male). E a questo è poi legato un’altro fattore già citato cioè lo stigma rispetto alla malattia mentale ed in particular modo alla depressione che viene a sua volta collegata all’essere una “cattiva madre” che danneggia il figlio. La mia esperienza è che oggi per molte donne è difficile accettare di fermarsi, accettare I propri limiti e le proprie fragilità, hanno un’alto ideale di sé e faticano ad accettare di non essere madri perfette, efficienti e capaci di bambini perfetti che mangiano e dormono. La distorsione legata alle insicurezze più o meno profonde le porta ad essere molto esigenti con se stesse c’è poco spazio per l’errore, per il non riuscire, entrano subito in crisi di fronte alle difficoltà di una realtà come quella della maternità che apre a dimensioni di sé e della propria interiorità sconosciute e che possono anche spaventare ed angosciare. Chiedere aiuto significa per queste donne essere deboli. D’altra parte dobbiamo pensare che è la nostra stessa società che dà questo tipo di messaggio, efficienza, competitività, velocità e soprattutto indipendenza vengono esaltati come aspetti da perseguire. Farsi aiutare significa essere capaci di dipendere dall’altro, accettare un rapporto asimmetrico. Questo aspetto è rifuggito ..le terapie devono essere brevi, e non solo per fattori economici, sotto spesso c’è l’evitamento della dipendenza….
Insieme a questi fattori che ostacolano la presa in carico delle donne sofferenti se ne aggiunge un’altro importantissimo che è legato al contesto familiare e il contesto dell’assitenza socio sanitaria.
Familiari e curanti non sono sempre attenti a capaci di cogliere il disagio. Il contesto dell’assistenza alla gravidanza e al dopo parto nel nostro paese è organizzato in maniera differente da Regione a Regione, totalmente focalizzato sull’asssitenza e sul monitoraggio degli aspetti fisici con una quasi totale assenza di attenzione per gli aspetti di benessere psicologico e di salute mentale. In Italia siamo ancora piuttosto indietro rispetto ad altri paesi europei e al contesto internazionale. Sarebbe necessaria una maggiore sensibilizzazione e informazione delle donne già dall’inizio della gravidanza rispetto alla salute emotiva (come si fa con la salute fisica). Un ‘altro elemento importantissimo è che manca per ora un diffuso programma di screening e monitoraggio della salute emotiva che sia predisposto dal Ministero della Salute. Questo dovrebbe partire già dalla gravidanza e continuare anche nel dopo parto, con una formazione adeguata alla relazione con la gestante e la puerpera da parte di tutto il personale sanitario (medico e paramedico) che si occupa della donna e del bambino in questa delicata fase di transizione. Il personale spesso fa del proprio meglio in mezzo a tagli della sanità, ritmi e condizioni di lavoro che difficilmente permettono di potersi fermare ad ascoltare e a fare una riflessione individuale o di equipè sul prorio lavoro con i singoli pazienti.
C’è poi il contesto familiare che spesso fatica a comprendere se e quanto la donna stà male. Spesso si tende a negare che ci sono delle difficoltà e i familiari magari colludono con la negazione stessa della donna, mentre altre volte i familiari negano le difficoltà che la donna lamenta sminuendole e relativizzandole peggiorando ancora di più il senso di inadeguatezza e confusione in cui la donna si trova. Credo che serva un’adeguata informazione dell’opinione pubblica e delle famiglie circa i disturbi emotivi perinatali e la depressione postpartum in generale, ma anche un contesto relazionale familiare che sia realmente capace di ascolto e cura reciproca. Su questo ultimo aspetto purtroppo possiamo fare poco, ma sicuramente laddove ci accorgiamo che manca questo tipo di contesto dovrebbe essere previsto un monitoraggio più attento da parte dei curanti (le osteriche dei corsi di preparazione al parto, il ginecologo, il pediatra o altre figure che si occupano dell’assistenza perinatale).
Cosa direbbe come terapeuta ad una donna che venisse da lei, disperata, pensando che la sua vita sarà sempre così?
So bene a cosa si riferisce …… è un’angoscia che non trova neppure parole per potersi esprimere e che viene verbalizzata quando va bene con la domanda “dottoressa ne uscirò mai?” Quando va male con l’affermazione perentoria “non ne uscirò mai”. Può essere utile, ma non sempre, dire che sì, insieme faremo in modo che esca da questa situazione. Non sono le parole, ma il clima affettivo che si crea, il momento in cui sono dette che fa la differenza tra parole che arrivano, risuonano dentro e “nutrono” e parole ripetute come litanie ossessive che a poco servono.
Per cui, di solito, quando una donna disperata arriva nel mio studio la prima cosa che faccio è non fare, non mi faccio prendere dall’urgenza, a meno che non valuti di essere di fronte a una reale urgenza. Mi metto in ascolto di quello che la donna mi dice e di quello che non mi dice, di come me lo dice. Nel contempo mi metto in ascolto delle mie sensazioni ed emozioni, di come mi sento di fronte a tanta disperazione. Non ho delle parole standard e non ho neppure la bacchetta magica. Quello che so, che è di aiuto, è che la donna possa uscire dal mio studio portandosi a casa qualche cosa di buono per sé; è farle sentire che io capisco e riesco a restituirle un briciolo di speranza e, se non c’è questa possibilità, almeno la speranza che insieme pian piano riusciremo a ritrovare la speranza perduta.
Il ruolo della famiglia è fondamentale: come si deve comportare nei confronti della donna che soffre di DPP?
Una donna che soffre di depressione postpartum ha sicuramente bisogno della presenza attenta e partecipe del compagno. Presenza fisica ed emotiva. E’ importante che il partner, anche se lavora, quando torna cerchi essere disponibile a sollevare la donna dalla cura del bambino, la aiuti durante la notte, magari stabilendo dei turni, cerchi di attivare, quando è necessario, le risorse esterne alla coppia che la donna da sola non è in grado di attivare (medico, ostetrica, cerchia amicale). Il compagno, se la depressione è molto marcata, è importante che faccia da regista (la donna spesso non vuole chiedere aiuto, non sa come muoversi) accompagni la donna alle visite (o preveda che un parente o amico la accompagni se lui non può) parli con I curanti e si preoccupi anche insieme ai curanti e alla donna di fare una sorta di piano organizzativo di come gestire la situazione familiare attingendo alle fonti di supporto disponibili. In generale direi che, a seconda della gravità della situazione, la donna deve essere aiutata anche nelle incombenze concrete e, nei casi più pesanti, deve essere lasciata il meno sola possibile. Questo non per evitare che faccia del male al bambino, come spesso si crede (questa eventualità deve essere valutata sempre da un clinic e comunque riguarda una piccolissima minoranza di casi), ma invece perché la presenza dell’altro per molte donne può essere rassicurante. Sanno a chi chiedere, sanno che se non ce la fanno possono lasciare il bambino all’altro, si sentono alleggerite e protette quando sono in preda alle angosce e ai pensieri ad esempio di poter far del male al bambino. In queste ultime situazioni avere qualcuno accanto, permette a queste donne in prima battuta di poter accudire il loro bambino con un po’ meno di angoscia perché sentono che l’altro è garanzia che non succederà nulla di brutto. Le famiglie allargate possono essere una risorsa nella misura in cui vengono percepite come tali dalla donna. Per cui, il consiglio che posso dare è di attivare tutte le risorse familiari dando a ciascuno un compito adeguato alla situazione anche relazionale presente nella famiglia. Se con la cognata c’è un rapporto migliore rispetto a quello presente con la propria madre, è meglio che sia lei a passare del tempo con la donna e chiedere alla madre di dare un supporto strumentale, magari facendo la spesa o preparando dei pasti da surgelare ecc. Piccoli accorgimenti che fanno la differenza perchè non c’è nulla di peggio che stare male ed essere costretti a ritrovarsi per casa familiari con cui si ha un cattivo rapporto. Questo in certi casi può addirittura accentuare il malessere.
In quanto tempo si guarisce? E’ necessario continuare ad avere un supporto anche dopo?
Questa è una domanda difficile perché sotto la dicitura di depressione postpartum stanno situazioni di malattia e di disagio psicologico molto diverse. Nei casi più lievi, che spesso insorgono già dalle prime settimane dopo il parto, può essere sufficiente una terapia breve con cicli ripetibili di 8 colloqui a frequenza settimanale (così faccio io ad esempio). Comunque, io raccomando sempre una frequenza settimanale fino a che non si è a buon punto della terapia. Per I casi invece più pesanti, le terapie si prolungano e talvolta all’inizio possono essere anche intensive per il grande bisogno di contenimento che le donne hanno. Un’altra variabile che può influire sulla durata è l’utilizzo o meno dei farmaci associati alla psicoterapia. In alcuni casi sono assolutamente necessari per sollevare la donna dall’angoscia pervasiva causata dai sintomi (come ad esempio attacchi di panico, pensieri ossessivi, in taluni casi anedonia e incapacità di alzarsi dal letto ecc).
Un’altra variabile ancora è legata a quale obiettivo si persegue con la presa in carico della donna, se l’obiettivo è la sola diminuzione dei sintomi allora è possible che la terapia abbia una durata breve (sei mesi) o media (un anno o più) a seconda anche della gravità della depressione. Per alcune donne però questo le fa stare solo parzialmente meglio, per alcune è importante anche capire cosa è successo dentro di loro che improvvisamente le ha portate a stare così male e a provare sentimenti che fanno fatica a riconoscere come propri. Per queste donne che cercano un senso alla spaccatura che la malattia ha causato nella loro vita, spesso è necessaria una terapia a lungo termine che le aiuti ad elaborare in maniera più profonda ed integrare nella loro identità di donne madri quanto accaduto.
Chiaramente, i servizi pubblici possono offrire – oggi come oggi quando va bene – delle terapie brevi, in genere cognitivo comportamentali, che possono essere di aiuto nella riduzione dei sintomi, ma nei casi più impegnativi o per chi sente il bisogno di integrare quanto accaduto nella percezione di sè come madre e donna sono necessarie terapie a medio e lungo termine. A mio avviso queste possono avere il vantaggio di aprire a parti di sé magari sconosciute fino al momento della crisi, con benefici per la vita della donna e per la sua capacità di crescere come madre insieme a propri figli. Teniamo presente però che una terapia lunga non è una garanzia sempre di maggior benessere e di maggior tutela rispetto alle ricadute. Io credo che se un percorso terapeutico è stato completato senza fretta (e questo non sempre è possibile per vari motivi compresi quelli economici) non è necessario continuare ad avere un supporto programmato. Chiaro che la disponibilità a riprendere i colloqui, per alcuni aspetti magari rimasti in secondo piano che possono palesarsi in seguito ad eventi di vita o con la crescita dei figli, a mio avviso va sempre data. Una terapia di supporto può essere molto utile in alcuni casi come nelle situazioni di depressione lieve o quando per qualche motivo la terapia si conclude ma rimane la necessità di un supporto rispetto ad aspetti specifici, oppure quando la terapia si conclude anzitempo o quando ci sono situazioni particolari legate a bisogni specifici inerenti situazioni sia di malattia che di contesto familiare e sociale. Come si può capire però è difficile rispondere a queste ultime due domande perché ogni donna è un mondo a se e va aiutata in maniera unica, perché ogni relazione terapeutica è unica e siccome ciò che cura non sono solo le tecniche ma la relazione terapeutica che si instaura dentro la quale si declina la tecnica, non esiste una regola fissa che ci dica quanto una terapia deve durare.
Foto credits: Pixabay e Rosa Maria Quatraro
Valentina Colmi
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