Leggo con molta tristezza che qualche giorno fa una donna di 31 anni – già madre di due bimbi – si è suicidata mentre era in attesa di due gemelli. L’articolo conteneva le frasi di rito “soffriva di depressione” e “nessun segnale sembrava far prevedere l’insano gesto”.
Allora. Io sono un po’ stufa di questa superficialità. Da parte di tutti: da parte di chi scrive – che evidentemente la maggior parte delle volte – non sa neanche di che cosa si stia parlando, ma soprattutto da parte di chi questa donna l’aveva in cura. Il mio è un j’accuse a tutti voi, medici, ginecologi, ostetriche che ogni giorno lavorate fianco a fianco con future mamme o che mamme lo sono già diventate. Ogni anno in Italia – secondo i dati a disposizione – si ammalano di depressione post partum tra l’8 e il 12% delle neo madri. Non lo 0,1%. E questo secondo le stime ufficiali. Pensiamo al sommerso, a quelle che non ci vanno a dire che stanno male.
Voi – operatori sanitari – che cosa fate? In teoria il vostro compito sarebbe quello di stare accanto alla donna. Non soltanto misurandole la pressione, bombardandola di ecografie, sgridandola se prende troppo peso. Dovreste chiedere come sta, ma sul serio, non in modo standard. Dovreste ascoltarla, per davvero. Dovreste non avere fretta quando la visitate e cogliere i segnali che lancia. Perché è una balla dire che non si poteva prevedere niente. Una donna, quando sta male, li lancia i messaggi di aiuto, ma di certo non verrà da voi con la scritta “Aiuto!” sulla testa composta di lampadine intermittenti e luminose.
D’accordo, per il vostro percorso di studi siete degli uomini e delle donne di scienza e vi hanno insegnato a guardare l’evidenza piuttosto che l’invisibilità dell’animo, ma non posso pensare che non ci siano delle linee guida univoche per capire come prevenire la depressione post partum. Ad esempio alcuni ospedali fanno lo screening per trovare a cogliere in tempo la possibilità di essere a rischio, ma spesso non è così. Lo screening dovrebbe essere obbligatorio, per tutte. Non un’opzione. “Eh, ma in poche scelgono di aderire”, potreste dire. E sapete perché? Perché la depressione pre e post partum vengono comunicate male. Anzi, non vengono comunicate affatto da voi che psicoterapeuti non siete. E si alimenta la paura, perché se non se parla, allora è una cosa grave oppure non esiste, oppure ancora per nominarla si usa una parafrasi come quando al posto della parola “cancro” si dice “un brutto male”.
E chi invece con fatica trova la forza di chiedere aiuto magari viene abbandonata. Una mamma mi ha raccontato di essere risultata a rischio dopo lo screening, ma che poi nessuno le ha fatto sapere più nulla, nonostante si fosse resa disponibile ad altri eventuali esami e a un percorso psicologico. E’ stata abbandonata a se stessa, anzi così è stata peggio, perché ha vissuto la gravidanza con l’angoscia di scacciare il pensiero della possibile depressione (che poi le è venuta).
Non voglio fare un discorso populista, ma per tanti bravi professionisti – le “mie” ostetriche Ilaria, Simona e Letizia e la “mia” ginecologa Manuela ne sono un esempio – ci sono ancora troppe mancanze. Capisco che lavorare in un ospedale sia difficile, alle prese con turni massacranti e con criticità che non possiamo comprendere. Però la depressione post partum sta diventando un problema sociale. Non si può continuare a dire “non c’erano segni”. Perché noi di voi ci fidiamo, cercate di meritare questa fiducia anche quando non riusciamo a parlarvi con le parole.
Depressione post partum: ostetriche, ginecologi, medici tutti, SVEGLIATEVI!
Leggo con molta tristezza che qualche giorno fa una donna di 31 anni – già madre di due bimbi – si è suicidata mentre era in attesa di due gemelli. L’articolo conteneva le frasi di rito “soffriva di depressione” e “nessun segnale sembrava far prevedere l’insano gesto”.
Allora. Io sono un po’ stufa di questa superficialità. Da parte di tutti: da parte di chi scrive – che evidentemente la maggior parte delle volte – non sa neanche di che cosa si stia parlando, ma soprattutto da parte di chi questa donna l’aveva in cura. Il mio è un j’accuse a tutti voi, medici, ginecologi, ostetriche che ogni giorno lavorate fianco a fianco con future mamme o che mamme lo sono già diventate. Ogni anno in Italia – secondo i dati a disposizione – si ammalano di depressione post partum tra l’8 e il 12% delle neo madri. Non lo 0,1%. E questo secondo le stime ufficiali. Pensiamo al sommerso, a quelle che non ci vanno a dire che stanno male.
Voi – operatori sanitari – che cosa fate? In teoria il vostro compito sarebbe quello di stare accanto alla donna. Non soltanto misurandole la pressione, bombardandola di ecografie, sgridandola se prende troppo peso. Dovreste chiedere come sta, ma sul serio, non in modo standard. Dovreste ascoltarla, per davvero. Dovreste non avere fretta quando la visitate e cogliere i segnali che lancia. Perché è una balla dire che non si poteva prevedere niente. Una donna, quando sta male, li lancia i messaggi di aiuto, ma di certo non verrà da voi con la scritta “Aiuto!” sulla testa composta di lampadine intermittenti e luminose.
D’accordo, per il vostro percorso di studi siete degli uomini e delle donne di scienza e vi hanno insegnato a guardare l’evidenza piuttosto che l’invisibilità dell’animo, ma non posso pensare che non ci siano delle linee guida univoche per capire come prevenire la depressione post partum. Ad esempio alcuni ospedali fanno lo screening per trovare a cogliere in tempo la possibilità di essere a rischio, ma spesso non è così. Lo screening dovrebbe essere obbligatorio, per tutte. Non un’opzione. “Eh, ma in poche scelgono di aderire”, potreste dire. E sapete perché? Perché la depressione pre e post partum vengono comunicate male. Anzi, non vengono comunicate affatto da voi che psicoterapeuti non siete. E si alimenta la paura, perché se non se parla, allora è una cosa grave oppure non esiste, oppure ancora per nominarla si usa una parafrasi come quando al posto della parola “cancro” si dice “un brutto male”.
E chi invece con fatica trova la forza di chiedere aiuto magari viene abbandonata. Una mamma mi ha raccontato di essere risultata a rischio dopo lo screening, ma che poi nessuno le ha fatto sapere più nulla, nonostante si fosse resa disponibile ad altri eventuali esami e a un percorso psicologico. E’ stata abbandonata a se stessa, anzi così è stata peggio, perché ha vissuto la gravidanza con l’angoscia di scacciare il pensiero della possibile depressione (che poi le è venuta).
Non voglio fare un discorso populista, ma per tanti bravi professionisti – le “mie” ostetriche Ilaria, Simona e Letizia e la “mia” ginecologa Manuela ne sono un esempio – ci sono ancora troppe mancanze. Capisco che lavorare in un ospedale sia difficile, alle prese con turni massacranti e con criticità che non possiamo comprendere. Però la depressione post partum sta diventando un problema sociale. Non si può continuare a dire “non c’erano segni”. Perché noi di voi ci fidiamo, cercate di meritare questa fiducia anche quando non riusciamo a parlarvi con le parole.
Foto credits: Pixabay
Valentina Colmi
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Next ArticleNon è vero che le madri lo sanno.