Paola Maraone: “Essere mamme è un percorso, non solo un (lieto) evento”

Paola Maraone

‘Ovunque mi volti ho sempre qualcuno da accompagnare da qualche parte, pulire, nutrire, coccolare, sgridare. Per sopravvivere ho cominciato a portare a lezioni di buone maniere il cane: è più ricettivo e volenteroso dei bambini, ma anche educare lui richiede tempo’.

Un’intervista ad una donna che ammiro molto: Paola Maraone. Giornalista, scrittrice, blogger e mamma di tre figli riesce a raccontare la maternità in maniera ironica, come tutte le donne intelligenti sanno fare. Questa è una chiacchierata a cui tengo molto, perché Paola espone delle opinioni davvero toste, senza nascondersi. Ve l’ho già detto che è il mio guru vero?

Paola, il tuo libro poi diventato un blog s’intitola Ero una brava mamma prima di avere figli, come a dire che prima di diventare madri si ha un’idea di “mammità” che poi puntualmente si scontra con la vita pratica. Ora che di figli ne hai 3, la mamma ideale e la mamma reale hanno fatto pace? 

Beh,  sì, nel senso che la “mamma ideale” ha totalmente ceduto il passo alla “mamma reale”. Con tre figli di cui una neonata (e, in modo del tutto accidentale, anche un cane da accudire) non sono riuscita a contrastare l’inesorabile downshifting da educatrice a esecutrice di commissioni. Ovunque mi volti ho sempre qualcuno da accompagnare da qualche parte, pulire, nutrire, coccolare, sgridare. Per sopravvivere ho cominciato a portare a lezioni di buone maniere il cane: è più ricettivo e volenteroso dei bambini, ma anche educare lui richiede tempo. Non è certo necessario avere tre figli e un animale domestico per accorgersi di come girano le cose: basta un neonato per scomporre gli equilibri, in famiglia. Per ricomporli non lo so, quel momento non è ancora arrivato.

Nel tuo libro dici: “Conciliare la maternità con il resto della propria vita è una sfida titanica. Ci sono donne che non lo fanno mai. Che restano mamme per sempre. Che senza i figli non si spostano più, nemmeno da se stesse”. Secondo te lo fanno perché ci credono davvero o perché sono vittime dello stereotipo culturale legato alla figura materna? 

Come si stabilisce il confine tra l’una e l’altra cosa? Una donna che conosco ha sette figli dai 15 ai 4 anni, prima di diventare madre aveva una carriera già discretamente avviata ed era una persona “normale”, anche curiosa e attenta alle cose del mondo. Poco prima della nascita del quintogenito ha mollato il lavoro, le sembrava ormai una presa in giro quel continuo prendere congedi parentali, rientrare in ufficio e poi, qualche mese dopo, riprendere la maternità. Capisci bene che per questa donna l’unica realizzazione possibile coincide squisitamente con il ruolo di madre. Con sette figli passa il tempo a occuparsi di loro, della casa, persino del marito con cui si sforza pure di fare la sexy. Nel suo caso gioca una parte importante anche la religione cattolica: fare figli, allevarli, tirarli grandi nel migliore dei modi possibili è una missione che soddisfa appieno il ruolo stereotipato di “mamma cristiana”. Non oso pensare a quel che accadrà quando tutti i ragazzi saranno autosufficienti. Probabilmente da mamma si trasformerà direttamente in nonna. È come se questa donna avesse perso completamente i propri confini personali: la sua esistenza ha senso solo in relazione a quella di qualcun altro, dei figli e del marito. Ci crede davvero? Immagino di sì. Comunque, salvo situazioni estreme molto spiacevoli, le donne occidentali non sono mai solo “vittime”, ma, almeno in parte, anche artefici del proprio destino.

Come mai si fa fatica a parlare delle ombre della maternità?

Per i motivi di cui sopra. Già non è socialmente accettabile il fallimento di un progetto di coppia – ancora si ha molto, troppo pudore nel parlarne, ancora si viene stigmatizzati quando, sempre con dolore, ci si separa dal proprio compagno o compagna. Figuriamoci quando poi a fallire è il progetto più nobile che ci sia, quello della maternità. A me pare che troppo spesso ci si dimentichi che essere/diventare madre non è solo un (lieto) evento, ma piuttosto un processo lungo, accidentato, carico di contraddizioni. Del resto i messaggi del marketing vanno in direzione opposta e contraria: sui cartelloni pubblicitari non vediamo che immagini di donne sorridenti, dai denti bianchissimi, che spingono baldanzose, quasi euforiche, carrozzine con a bordo neonati di pochi giorni altrettanto sorridenti (!), benché per età privi di denti. Chi avrebbe il coraggio di opporsi, di non aderire entusiasticamente al modello proposto, dunque?

E quando capita di “arrendersi”, che sia alle difficoltà dei primi giorni o dopo settimane di strenua lotta per sopravvivere – alla mancanza di sonno, all’allattamento che si avvia con fatica, a un corpo all’improvviso sconosciuto e nemico, all’incapacità di interpretare un pianto – si pensa che sia meglio nascondere le proprie imperfezioni. È come se fosse vietato condividerle: il diktat è occultare la stanchezza, passarsi un metaforico fondotinta sull’anima per rispondere ad amici e parenti venuti in processione l’invariabile «Va tutto bene, grazie». Quando poi la processione cessa e si resta a casa da sole con il neonato  – ma anche, nei mesi e negli anni successivi, con un bambino piccolo da accudire senza aiuti – ecco che le ombre a volte prendono il sopravvento. E allora nei casi più gravi ed estremi càpita di finire in cronaca, etichettate come criminali o pazze, quando sarebbe magari bastata una mano tesa a evitare di scivolare nel baratro. Poi ci sono i casi meno gravi – per fortuna la stragrande maggioranza: ovvero tutte le occasioni in cui ti senti molto stanca o esasperata o triste o tutte e tre le cose assieme e pensi “solo”, chi me l’ha fatto fare, di mettere al mondo un figlio.

Recentemente su Il Sole 24 ore è apparso un articolo di Riccardo Piaggio intitolato “Mamma che blog!”, in cui si dice che comunque oggi in rete la tendenza è quella di parlare di maternità “in rosa”, focalizzandosi di più sui consigli per gli acquisti per il bebè piuttosto che sullo stato d’animo – a volte proprio nero – delle neo mamme. Eppure il fenomeno dei mommy blog è nato proprio in rete. Secondo te non c’è ancora un linguaggio “giusto” per parlare alle mamme? 

Non mi piace l’espressione “mommy blog” proprio perché mi evoca all’istante le atmosfere finto-zuccherose con cui il marketing ci martella. Detesto anche i “consigli per gli acquisti” di cui è pieno il web, a partire da certi blog che traboccano di post sponsorizzati: basta leggere un buon libro come Bebé a costo zero, di Giorgia Cozza, per capire subito ancor prima di diventare mamme quanto il 95% di quel che ci propongono di comprare sia inutile. Però direi che il linguaggio “giusto” esiste eccome: la rete è ricca di risorse intelligenti e di blog capaci di parlare al cuore e non al portafoglio, per chiunque abbia la pazienza e la curiosità di cercarle.

Tu sei una giornalista: quanta responsabilità hanno i media per l’ “immagine” – sia in senso letterale sia in quello figurato – data sulla maternità? Possono secondo te avere una responsabilità nell’insorgenza della depressione post partum? 

Mi risulta siano tanti i fattori che concorrono all’insorgenza del baby blues e della depressione post partum. Secondo gli ultimi dati in Lombardia ne soffre addirittura una mamma su tre, a vari livelli di gravità. Io credo che più di tutto possa fare la famiglia, e in special modo il compagno della neomamma, il cui sostegno è davvero indispensabile. Insomma penso che i media siano responsabili “solo” nella misura in cui, come altri soggetti, veicolano un’immagine distorta o sbagliata della maternità dipingendola unicamente come periodo “rosa” mentre invece sappiamo bene che non è così. Per paradosso guardandomi attorno trovo che le riviste di settore, quelle specializzate in puericultura diciamo, continuino a parlare della maternità in modo troppo ottimistico ed edulcorato. Mi pare invece che settimanali e mensili generalisti, femminili oppure no, siano più onesti nel raccontare le contraddizioni e la fatica del diventare mamma. E forse, per stare meglio “dopo”, basterebbe partire con aspettative diverse, più realiste, prima dell’arrivo del bebé.

Foto credits: donnamoderna.com 

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